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Titolo: Sarà quel che sarà

Autore: Francesco Chiesa

Data: 1934-02-14

Identificatore: 1934_140

Testo: Sarà quel che sarà
Anch'io, senz’essere il Leopardi, sento spesso la tristezza e la noia dei giorni domenicali: unico rimedio, quando mi riesce, volgere il tergo (come si diceva una volta) alle mura cittadine e andare fino a sera per monti e valli, prati e foreste. Oggi mi è riuscito: niente lavori d’impegno, niente visite d’obbligo; moglie e figli, chi di qua, chi di là, ciascuno per conto proprio. E bello il tempo; direi anzi bellissimo se potessi adoperare i superlativi nel senso delle mie predilezioni. Cielo pallido, ma non più alla maniera invernale: quel vuoto esangue, esanime... No; un celestino denso dolce, da cui sfioccavano bei nuvoloni chiari, conte se fiorissero. E, quand’uno di quei nuvoloni si metteva dinanzi al sole (e ci rimanevano un bel pezzo, tant’erano pigri e incantati) si spandeva sulla terra un colore giacinto, un tono di tragicità non sinistra; e il bigio delle strade era come quando s’esce in sull’alba e si comincia a vedere dove si va. Poi, una esplosione di sole, da mandare in subbuglio ogni minimo rigagnolo, da far spiritare i vetri a tutte le finestre. E si va, si va, senza più fatica che quelle nuvole lassù.
Cosi mi son trovato alla seconda svolta della strada che mena in cima alla più nobile e felice delle nostre montagne: felice del posto di privilegio che Dio le ha dato in riva al lago. Lassù c’era gente a guardare la bella vista; altra gente si vedeva affacciata al muricciuolo della svolta soprastante; ed io, che non sono sempre disposto ad amare la compagnia dei miei simili, ho abbandonata la strada maestra, mettendomi per l’antica strada mulattiera. Ho detto che non sempre amo la compagnia dei miei simili... Ma non che io sia un misantropo: no, sono l’uomo più socievole del mondo; e, se qualche volta m’apparto, è per ritornare con più piacere in mezzo alle turbe". Chi ami, supponiamo, il buon vino, e non sia un volgare bevone, sa quanto giova, di tempo in tempo, un po’ d’astinenza. Poi; un’altra cosa, non facile a dire. Ecco: io mi sento, di tanto in tanto, il bisogno di non essere più, per qualche ora, chicco di pannocchia, pietra di edifizio, pietruzza di mosaico. Tutti siamo fatalmente pietruzze, più o meno pregevoli, del gran mosaico: chi non lo sa? Ma spiccarsene un istante, sognare di non essere più li stretti incastrati, è un bel conforto, ed è la maniera di rientrare più lucidi, solidi e puliti nel proprio alveolo.
Dunque, quella vecchia strada mulattiera. Durante la stagione dei fogliami e delle erbe, non avrei potuto proseguite molto, tanta l’invadenza degli sterpi e dei rovi che, per lunghi tratti, cancellano quasi ogni traccia. Ma l’inverno ha pure i suoi vantaggi: quello, ad esempio, di lasciar riapparire ciò che l’estate, con la sua gran passione di cose festose e fastose e orgoglio di vita, nasconde come troppo aspro e semplice e meditativo. Nasconde i rozzi sentieri degli avi, i rottami dei loro muri; ma poi viene l’inverno e rievoca quelle rispettabili cose nel suo dolce pallido sole. Rivela al passeggero, attraverso l’intrico dei bronchi, il bigio dell’antico acciottolato; aiuta il naturale discernimento dei piedi. Chi è camminatore, sa che i piedi dell’uomo possiedono una loro facoltà visiva, pronta e sicura più di quella che abbiamo in fronte: altrimenti, come si andrebbe di notte? Bisogna, naturalmente, che sia strada praticabile, che i triboli e le spine concedano qualche intervallo. Nel qual caso, si lascia che i piedi vadano, e si è liberi di guardare le nuvole, d’ascoltare il canto degli uccelli e di pensare a quel che si vuole.
Io, oggi, di cosa in cosa, mi son trovato a pensare detti e fatti, vita e miracoli della nostra Serafina: e quella sua bellezza rosea e bionda che non è ancora riuscita a procurarle un marito serio e conveniente; e quel suo caratterino che andrebbe bene in un romanzo e forse meno bene in una famiglia propria e vera; e quel suo strano contegno ogni volta che s’affaccia qualche possibilità di matrimonio: quel né si né no, ovvero un certo « ma si! » che vuol dire: proviamoci pure, se è per farvi piacere; tanto non se ne fa nulla. Misteri e garbugli dell’anima femminile! Poiché non posso già supporre che in quella nostra primaverile figliuola alberghi una misera anima rinunziataria. « Serafina, — le dissi un giorno — confessa che, in fondo, tu covi l’idea di farti monaca ». « Sì, in compagnia d’un frate », rispose. E della risposta volgaruccia arrossì forte; e soggiunse: « Sto cosi bene così. Non ci penso. Sarà quel che sarà... ». Sarà, penso io, che un bel giorno il velo cade, e il grande arcano si palesa nella persona d’un certo scavezzacollo che le ha rubato il cuore. O lui o nessuno. E non saranno giorni lieti, quelli, in casa nostra.
Pieno di perfetta pace era il luogo in cui mi sono trovato mentre pensavo a quella probabile guerra. Era un piccolo spiazzo tutto mondo e chiaro entro il contorno viola della boscaglia: forse, ai tempi antichi, terra coltivata (e infatti discernevo l’ossame bianco d’un muricciuolo), ora praticello vestito d’una fitta magra erba, aderente come un pelo. Erba ed erica: quella qualità di erica che prepara già di tardo autunno l’infinito seminìo pavonazzo de’ suoi bottoncini, meno che capocchie di spilli; poi, se viene un gennaio appena appena cristiano, li apre tutti in un fiorire rosa, rosso, che pare il riverbero di certi tramonti sanguigni sui dossi della terra.
M’ero seduto lì, in mezzo a quel piccolo paradiso, nel silenzio appena un po’ mitigato dal fiotto languido del lago contro le rive laggiù. « Sarà quel che sarà», dicevo anch'io; ed erano parole di serena indifferenza, il cui senso s’estendeva a lutto il futuro, mio e non mio, Serafina e non Serafina. Anche il lago, con quel suo molle tonfo cadenzato, diceva qualche cosa di simile. E le belle nuvole, felici di starsene sospese nel sole, era come se anch’esse pensassero: poi sarà quel che sarà.
Parole che, naturalmente, volevano significare: accetto tutto in pace, anche i più solenni mali. E non era vero: una piccolissima cosa noiosa, nemmeno un male, di cui m’accorsi ad un tratto, bastò a distruggere la mia perfetta pace. M’accorsi che veniva gente alla mia volta; udivo, attraverso la boscaglia, un rispondersi di voci, un frusciare dei fogliami. E balzai in piedi prima che comparissero; mi rifugiai su su, nel folto dei cespugli.
Perché? Eh, per gelosia. Gelosia, come tutte le parole del vocabolario, significa mille cose, tra le quali la passionaccia che ognuno sa. Ma una gelosia di tal genere banale e grossolano non ha mai trovato posto nel mio animo; e mia moglie potrebbe farne testimonianza: mia moglie, che fu, a’ suoi tempi, assai bella donna, e della mia inalterabile fiducia qualche volta, credo, s’è perfino un poco offesa. Io sono invece gelosissimo delle cose: delle povere care cose, che non sanno difendersi, che non hanno braccia per respingere chi si deve, tenersi aggrappate a chi si deve. L’unica donna di cui fui geloso in vita mia, tremendamente geloso, era una donna di cera, che un parrucchiere teneva esposta nella sua vetrina, ai tempi del mio liceo. Quanto passare e ripassare per quella strada, mattina e sera e ad ogni ora del giorno! Se scorgevo qualcuno li fermo dinanzi alla vetrina, tiravo via furioso e truce: scappavo fremente se qualcuno mi veniva alle spalle. Perfino mi venne una volta l’idea di farla finita; e trapassare la vetrina con un colpo di clava e distruggere quella sciagurata bellezza pandemia che abbandonava il suo sorriso rosa a tutti i passanti... Già da ragazzo avevo gettato nel fiume una certa mia palla: mia, e tutti pretendevano d’adoperarla come se fosse palla di tutti.
Ma non sarebbe stato possibile, oggi, buttare nel lago il mio paradisino fiorito prima che vi giungessero quegli intrusi: donde la mia fuga, essendo meno cruccio abbandonare tutto che condividere.
Ed ecco che, standomene accovacciato fra i cespugli, odo sotto di me distintamente le voci dei sopravvenuti: due voci, voce d’uomo e voce di donna. Impossibile afferrare le parole; ma si sente che sono voci di giovinezza e di gioia; particolarmente la voce femminile, che... Ma è la voce della Serafina, quella! Lei fuori di dubbio: quegli scoppi argentini; quel chiacchierio minuto che poi cambia ad un tratto e diventa una dolce lentezza, come l’inizio d’un adagio nella musica mutevole del suo parlare...
Il primo impulso fu di sporgermi a vedere, a scoprire. E non mi mossi. Un cane salì abbaiando, sfrusciando fra gli arbusti: uno di quegli spinoni, se ho osservato giusto, che sembrano quanto di più rustico e magari sono la quintessenza della razza pura, lo gli sorrisi con tutta la grazia e gli feci cenno che tacesse. Ed egli tacque, non so se per effetto del mio cenno o perché non mi trovasse abbastanza interessante. Annusò la punta d’una mia scarpa e se ne andò dond’era venuto: crollando, direi, le spalle, se anche i cani usassero così a dimostrare la loro poca stima.
Poi le due voci si riallontanarono nella direzione della strada maestra. Ed io son tornato a casa, convinto e non convinto d’avere udito bene, sicuro e non sicuro d’aver fatto bene a non isporgere la faccia.
A tavola, come tutte le altre sere. La stessa Serafina rosea e bionda di tutte le sere. Nulla nelle chiare acque de’ suoi occhi che s’assomigli all’immagine fortemente specchiata d’un qualcuno, d’uni qualche cosa. Dico, ne! tono della perfetta indifferenza: « Sei stata a spasso, oggi, Serafina... ». Dice: « No. Sono stata coi Borghi al cinematografo ».
Facile mi sarebbe chiedere, constatare. Ma non farò nulla. Sarà così, non sarà cosi. Sarà quel che sarà.
Francesco Chiesa.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 14.02.34

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Citazione: Francesco Chiesa, “Sarà quel che sarà,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1505.