Grandine (dettagli)
Titolo: Grandine
Autore: Alberto Rossi
Data: 1931-09-16
Identificatore: 152
Testo:
Grandine
Da qualche giorno, il temporale si aggira nell'aria, e non trova la via di sfogarsi. Attorno a una montagna. poi attorno a un altra, si forma un groppe di nubi prima grige, poi bluastre e nere, sempre più nere, cascano due gocce, par stia cominciando un diluvio: e poi tutto finisce li. senza convinzione, per ricominciare poche ore dopo.
L'aria è tesa, uggiosa, inquieta. La calura rabbiosa, avventante, piglia al capo. Tutti gli odori salgono da terra, si sono fatti acuti, densi, morbosi. E anche le bestie sono inquiete. Si direbbe che la natura tutta sia turbata da una improvvisa rottura del suo equilibrio. Le mosche vi si posano addosso con un peso di piombo, attaccaticce come il vischio, e mordono rabbiose.
Uscito a fare un giretto, incontro il padrone di casa che se ne torna, lucido di sudore, che gli corre giù pei baffi biondi spioventi, tenendo alla briglia il suo mulo, e dietro sul carretto quattro fagotti di fieno. S'è sempre lamentato, i giorni scorsi, della siccità e del vento, ma ora con un cenno verso il cielo mi fa: « Basta che ci lasci portare a casa il granai ». Quel che qui chiamano grano, non è frumento ma segale, che cresce bene su questi costoni ruposi, in tanti quadretti intagliati nel terreno. Poco dopo, lo incontro di nuovo, che torna verso i campi. Si ferma un momento con me. Abbiamo scambiato poche parole sinora, ma il suo sorriso è cordiale: direi quasi, confidenziale: e ciò mi fa un assurdo piacere. Sopra le nostre teste, due noci frondosi fanno mostra di una quantità di frutti lucenti, quasi trasudanti anch'essi di salute. « Buona campagna, quest’anno », faccio io.
« Non c’è male — annuisce luì, con quell’aria di avaro consenso propria ai contadini. — Quest’anno la frutta è bella, in compenso per l’anno passato che non ce n’era per nessuno. Ora abbiamo bisogno che ci lasci portar dentro in pace la segale », aggiunge con un’occhiata circolare verso i punti dell’orizzonte, o le cime dei monti. Avevano cominciato quel mattino a tagliar la segale: si vedevano lontano, su pei costoni, entro a quelle strisce giallastre, nettamente riquadrate come su un ricamo, e che si spingono su su, in alto, fin dove si può rubare al monte un palme di terreno, si vedevano certe confuse figurine procedere curve con gran gesti orizzontali delle braccia. Dietro a loro, la messe tagliata giaceva, d’un oro brunito, che intaccava l’oro chiaro e splendente, compatto, di quella ancor ritta.
« Purché non piova! », egli ripete. Gravemente mi spiega, come si trattasse di misteri, che la pioggia forte abbatterebbe la segale in piedi, matura, rendendone difficile il taglio, mentre sciuperebbe e sgranerebbe quella tagliata. « E la grandine qui vien di rado? », chiedo io, ricordando i miei paesi dove ogni anno, si può dire, qualche breve e rabbiosa grandinata viene a sconfiggere le speranze che ancora avevan potuto sopravvivere alle nebbie, alle brinate, alle tante insidie del clima e della stagione: si che la gente esasperata, e attirata dai più facili e regolari guadagni delle industrie, vi aveva quasi del tutto abbandonato il lavoro dei campi.
« Oh, qui la grandine per fortuna non viene quasi mai », replica quello. E io a spiegargli come invece da noi essa sia frequente, e come giunga spesso tanto improvvisa, sbucando da dietro a un monte che s’alza dritto a nord del paese, da non dar tempo da correre a riparo. E come un tale colpo di vento avesse una volta sbriciolate di netto tutte le vetrate di casa mia, senza che s’avesse avuto tempo a correre per chiuder porte e finestre.
Poi ci salutiamo, lui subito affaccendato di nuovo appresso al suo carretto e ai suoi multipli pensieri, io a bighellonare intorno, subendo il paesaggio e il volger dell’ora. Di nuovo un nembo pare addensarsi minaccioso, giunge qualche folata di vento precorritore, ma poi tutto ancora si risolve con poche gocce di una pioggia calda e rada, scottante sulla mano come le lacrime. Il nembo si scioglie, per quest’oggi non c'è da aspettare refrigerio. Il refrigerio tanto temuto dal mio padron di casa.
S'annunzia la sera, il sole manda gli ultimi raggi taglienti: s’approssima l'ora della cena, mi faccio verso casa. Dopo un po’ che s’è a tavola, mi avvedo d'un certo buio che mi pare innanzi l’ora, in queste lunghe serate estive. Esco un momento sul terrazzo a dare un’occhiata intorno: pare si stia di nuovo addensando un temporale: « Saranno ancora quattro gocce che lasciano il caldo che trovano », si commenta a tavola, intanto che si passa alle frutta. S’accende la luce, e in quell’alone un poco disusate in quei giorni ci si distrae in altri pensieri, forse in altri discorsi. Ma ecco, a un tratto, qualche colpo sordo sul terrazzo. Che goccioloni pesanti hanno da essere! Ma no, non è rumore di gocciole, è un rumore come di corpi grevi che si schiacciano sul cemento. Toc, toc, toc... Vado a dare un’occhiata. Son come pacchetti di una neve mezzo rappresa, che giungono improvvisi, con rabbia, si direbbe, e come lanciati da una mano incollerita, a schiacciarsi lì sul pavimento, rimanendo in un macchietto, immobile. Così giungono, fuori dal buio addensatosi, questi radi messaggi dell’inquietudine celeste. Poi comincia a cadere qualche gocciola di pioggia, e sembra che così, in un buon acquazzone, si stia per spiegare e distendere quell'incertezza sospesa poi, invece, qualche granello di grandine, non più floscio e a metà rappreso come quei primi proiettili, ma duro e saltellante, veri chicchi di grandine infine, che tosto s’infittiscono in una sarabanda danzante, nel raggio di luce che vien di dentro. Non s’ha tempo di riflettere a quel che succede, e già la grandine vien giù a diluvio, a scroscio, con un rumore eguale come di fiume in piena. Su quel gran rombo monotono di torrente scatenato, si staccano i colpi secchi della gragnuola rimbalzante attorno a noi, a chicchi duri e grossi, grossi come le noci che avevo ammirato poche ore prima, lustre tra il fogliame. I chicchi più grossi si spaccano urtando sul cemento. Schizzano via sibilando. Poi il fragore della colonna che obliquamente vien giù a scroscio, acqua e grandine confuse, sommerge tutto quanto. Davvero ora le cateratte del cielo sono aperte. Si sta a guardare, con quella tranquillità smemorata di quei momenti in cui dinanzi ai nostri occhi di spettatori disarmati si vien compiendo l’irreparabile. E già si misuri, in una rapida anticipazione, tutta quella massa di pensieri, di sensazioni, di conseguenze, che il fatto prospetta dinanzi a noi.
Quindici, venti minuti dura lo scroscio uguale, ininterrotto: pare rallenti, e poi riprende con rinnovata furia; si calcola, mentalmente, minuto per minuto, lo svanire delle possibilità che qualcosa nei campi sfugga tra le maglie di tale flagello. D’improvviso cala il gran rombo, un po’ di luce si mostra, qualche strappo tra le nuvole livide, sfilacciose. Tosto si mostra cupo il sereno, che riconquista rapido il cielo. Si esce a guardare, nell’ultimo lucore del crepuscolo, che ancora filtra per l’aria lavata. Uno strato bianco copre la terra, come per improvvisa neve. E poco più tardi, al primo biancheggiar della luna, s'intravvede la collina di fronte, poco fa gialla di biade, come per un prodigio trasformata in scenario invernale, scintillante contro le ombre cupe della valle. Il padrone se ne esce fuori con una sua macchinosa lanterna, a esplorare le viti qua sotto, e l’orto. Il poveruomo non ha parole, ha ascoltato in silenzio i nostri tentati conforti, col dire che il danno sia forse minore del temuto, poiché acqua era mista alla gragnuola, e così via. Lo udiamo scalpicciare là sotto, vediamo il suo lumino che vaga qua e là, contro terra e tra le fronde della pergola. Dopo poco torna su, con un gesto sconsolato. Più niente, ogni cosa è distrutta. E l’avena ch’è fuori tagliata, stesa sui campi!
L’acqua buttata dal vento, e della gragnuola ammassata che si scioglie, dal terrazzo ha invaso le camere: si scopa anche quella, e poi non rimane proprio più niente a fare: si indugia intorno, si fanno parole con questi contadini, sottilmente animati loro e noi da un senso di improvvisa familiarità, anzi solidarietà, che non è poi altro in gran parte se non la fittizia esaltazione nervosa dell’ora: e il desiderio in noi di non chiuderci egoisti nel nostro senso di incolumità, in loro di non mostrarsi vinti e ostili sotto la sciagura, di non cedere niente della loro dignità. Io ripenso a quel discorso che fioche ore fa s’era tenuto col padrone, ma egli ha l’aria di non ricordarsene, non che ne faccia cenno. Infine, si va a letto.
L’indomani mattina, tutto è rorido e terso, lucente, sotto un sole che crudele rivela ogni strappo, ogni falla, nel verde tessuto di cui s’era protetta la terra. Il rigoglio di ieri è calpesto, straziato, lacerato, sminuzzato con rabbia maligna. I tralci delle viti son goffi moncherini tesi contro il cielo e, sotto, il terreno è coperto da una fitta coltre di foglie, di rami, di chicchi minuti sparsi a ventura. L’orto non c’è più, come distrutto da un’orda improvvisa di roditori. Il padrone se n'è andato in montagna, per sottrarsi all'amarezza di andare inventariando intorno le miserie lasciate da quella rapina. Io mi avvio passo passo su per la stradetta che va alla chiesa, a dare un’occhiata in giro.
Mentre son termo a osservare, là dove un improvviso torrente ha scosceso la strada, mi raggiunge una gran vecchia segaligna, adunca, che spinge innanzi a grida e colpi di bacchetta un suo asinelio. Arrestandosi a quel passaggio difficile, mi guarda e con vasti gesti eccitati mi accenna la rovina intorno. « Vede, vede? E adesso come facciamo noi, come facciamo noi a campare? ». Mentre io vado innanzi posando con attenzione il piede sulle pietre, quella mi insegue: e c’è nelle sue replicate parole una strana animosità, quasi una sorta di risentimento personale, come io tossi tra i responsabili di quello stato di cose: poi finalmente svolta al crocicchio, con un ultimo agitar di braccia magre, e un ultimo sguardo corrucciato. E io proseguo in silenzio, con lo spiacevole senso di essere davvero un po’ colpevole.
Alberto Rossi.
Collezione: Diorama 16.09.31
Etichette: Alberto Rossi
Citazione: Alberto Rossi, “Grandine,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/152.