La tenzone del "romanzo collettivo" (dettagli)
Titolo: La tenzone del "romanzo collettivo"
Autore: Alberto Moravia, Valentino Bompiani
Data: 1934-04-25
Identificatore: 1934_198
Testo:
La tenzone del "romanzo collettivo"
Avevamo le migliori intenzioni di chiudere questa polemica, compiaciuti d’averla accesa e di assistere al suo dilagare per tutti i fogli e foglietti della penisola. Ma la polemica si fa forte anche oggi di interventi dei quali non vogliamo defraudare il pubblico: scende autorevolmente in campo Alberto Moravia, l’autore de « Gli Indifferenti », con argomentazioni la cui importanza non sfuggirà a nessuno: e viene di rincalzo ancora una volta l’editore Valentino Bompiani (che ha iniziato la polemica nel corso della quale s’è rivelato, oltre che vigile lanciatore di libri, anche abile lanciatore di giavellotti polemici) per rispondere all’ultima « comparsa conclusionale » di Massimo Bontempelli. Dopo di che Bompiani vorrebbe far punto. Ma i cavalieri della giostra deporranno le lance così valorosamente maneggiate?
Il parere di un romanziere
Molto bene ha fatto Valentino Bompiani a rivendicare nella discussione sul romanzo collettivo il piano tutto pratico e speculativo dal quale era partito per formulare le sue affermazioni. Infatti tali discussioni hanno lutto da guadagnare ad uscire dalla zona pericolosa e controversa della critica estetica. In sede d’arte Bontempelli ha senz’altro ragione e forse l'avrebbe anche di più se non si preoccupasse tanto di avere le carte in regola col proprio tempo; nel campo dell’arte, giova ripeterlo, non esiste se non ciò che è arte; tutto il rimanente non ha valore, e i capolavori d'ogni secolo come tutti sanno si contano sulle dita. D’altra parte non è meno vero che la grandissima parte di questi capolavori furono creati in tempi nei quali la critica estetica o non esisteva affatto o era superficiale e sbagliata. Ma appunto per questo, appunto perchè mi trovo di fronte ad un editore e non di fronte ad un critico, voglio, lasciando da parte ciò che Bompiani chiama l’estetica pura, non essere altro che uno scrittore avido di popolarità e di attualità il quale seduto al tavolino davanti una bianca risma di carta interroga il proprio tempo; e vedere con le prove alla mano se nel campo pratico e speculativo la lesi dell’editore Bompiani è azzeccata oppure no.
Non sarà forse inutile premettere una breve elucidazione sul cosiddetto romanzo collettivo. Cos’è dunque questo, diciamo così, neo-romanzo e da dove viene? Non mi allontanerò molto dal vero rispondendo che questo romanzo è di marca anglo-francese e rappresenta l'ultimo, dico l’ultimo, portato della romanzeria più tipicamente ottocentesca. La discendenza infatti si stabilisce così: Maupassant e i veristi francesi influenzano il primo Joyce ài Gente di Dublino;, il quale Joyce a sua volta, approfondendo e spingendo agli estremi l’estetica verista, crea Ulisse, ossia un eccesso di rappresentazione passiva, relativista e verista che equivale ad una negazione appunto del valore della realtà sensibile; tutto ha il medesimo valore, dunque niente ha valore; quindi da Ulisse ai surrealisti da una parte e ai neo veristi Dos Passos, Doeblin, ecc. dall'altra, il passo è breve: Ulisse'porta logicamente sia al documento grezzo sia all’incongruenza più pazza. E nello stesso tempo, parallelo a Joyce ma su un pianò diverso, abbiamo il fenomeno Proust il quale con mezzi e fini diversi produce i medesimi risultati: Ma, e qui sta il punto importante, così Joyce come Proust sono due prodotti fin de siècle, due vicoli ciechi, al di là dei quali cessa l'arte e incomincia il documentario e il saggio psico-analitico. Joyce e Proust sono dunque tutt'altro che attuali e i loro seguaci sono nient’altro che stanchi e noiosi epigoni. Quanto poi a coloro che in Italia sostengono il romanzo collettivo dico che sono dei provinciali un tantino ignoranti che hanno aspettato le traduzioni per leggere i libri in voga in America e in Europa dieci e anche quindici anni fa. Non parlo di Bompiani che fa l’editore ma di molti suoi lettori che fanno i letterati.
Ma non basta; o almeno per un editore come Bompiani non può bastare. Egli infatti ha tutto il diritto di domandarmi, dopo la parte negativa, la parte positiva. Se il romanzo collettivo è una anticaglia, egli può domandarmi, quale sarà allora il romanzo del futuro? Potrei rispondere che il romanzo del futuro sarà come lo faranno i romanzieri e non come lo vorranno gli editori e i lettori; ma è una risposta troppo ovvia e superba insieme; perciò veniamo ai particolari.
Le masse, affermano i sostenitori del romanzo collettivo, sono il fatto nuovo del giorno, donde la necessità di un romanzo che abbia per protagonista la massa. Ora io muovo due obbiezioni: in primo luogo che le masse siano il fatto nuovo del giorno, in secondo luogo che esse prediligano un'arte di massa. Ed ecco la dimostrazione della prima obbiezione. Non sono le masse il fatto nuovo del giorno bensì l'avvento trionfale di individualismi straordinari e rappresentativi, il fiorire del mito della personalità umana in tutti i campi, da quello della politica a quello dello sport, da quello del cinema a quello della finanza. Individualismi, ripeto, straordinari e rappresentativi verso i quali si volgono gli occhi e le speranze delle masse, fatto questo nuovissimo nella storia, fatto che non si riproduceva dai tempi dell’Impero romano. Abbiamo pertanto in politica gli uomini di Stato investiti di poteri dittatoriali e sostenuti da popolarità prima mai viste, e in primo luogo Benito Mussolini, e poi Roosevelt, e poi Stalin e poi Hitler e tutti gli altri minori; nel campo dello sport gli assi dell’aviazione, dell’automobile, della boxe, del ciclismo, e di tutte le altre attività sportive; nella finanza i grandi banchieri misteriosi e onnipotenti come Zacharoff e Deterding o truffaldini come Kréuger; nel cinema le Garbo, i Chaplin e le mille altre stelle di quelle effimere costellazioni; perfino nel delitto si forma il mito di Al Capone. Insomma in tutti i campi dell’attività umana assistiamo al fenòmeno nuovissimo di personalità più o meno grandi, più o meno rappresentative, le quali, grazie al giornalismo, al cinema e agli altri moderni veicoli della rinomanza, rapidissimamente diventano miti, ossia si pongono fuori per l’appunto di quella realtà giornaliera e terra terra che il collettivismo mostra di predilìgere. Grandi uomini ce ne sono sempre stati, ma questa fioritura di miti umani, ossia di personalità rappresentative dei problemi diffusi, ecco la novità. Coloro che predicamo la fine dell’individualismo considerino dunque questi fatti e mi dicano poi se non è piuttosto vero il contrario, ossia il trionfo di individualismi quali il tanto deprecato Ottocento non ha mai conosciuto. Perchè poi tutto ciò avvenga sarebbe troppo lungo spiegarlo. Mi basterà fare un’affermazione alla quale mi pare che si possa difficilmente opporre una smentita: le masse vogliono le grandi personalità, le società borghesi non le vogliono, le masse, associazioni di necessità, sono soggettiviste e individualiste, le società borghesi, associazioni di volontà, sono conformiste e sociali. E questo è tanto vero che furono le oligarchie a osteggiare Giulio Cesare e le masse a sostenerlo.
Da questa affermazione nasce la seconda obiezione: non è vero che la massa chieda un'arte che rispecchi le sue condizioni; al contrario, come in politica, così anche nell’arte le masse vogliono essere distratte dalle loro condizioni e dai loro destini e affascinate da condizioni e da destini affatto diversi e infinitamente superiori; insomma, vogliono qualcosa che sia fuori e sopra di esse. Basterà dare un’occhiata al cinema per convincersene: i film collettivi Aleluia e La folla non hanno certo conosciuto il successo delle pellicole della Garbo e della Dietrich e degli ultimissimi Enrico Ottavo, Schubert, Caterina di Russia. E Dos Passos e Doeblin sono più che equilibrali dalla voga delle vite romanzate e dei libri gialli, succedanei questi ultimi di quei romanzi di cavallerìa che fecero impazzire il povero Don Chisciotte.
La conclusione? che il romanzo del futuro non sarà collettivo ma eroico. Ossia concreterà in personaggi le correnti morali e politiche dominanti. E non saranno personaggi qualsiasi, presi a caso dalla folla, grigi e anonimi, ma personaggi rappresentativi, introvabili nella folla, e nei quali tuttavia la folla si riconoscerà. Per conto mio ho fiducia in un romanzo moralistico, politico e magari filosofico, nel quale l'intreccio abbia un valore tendenzioso e allegorico non dissimile da quello della parabola, un romanzo insomma di immaginazione e di idealità e non di trita e fotografica realtà.
Alberto Moravia.
Ultima replica a Bontempelli
Diceva Ferravilla nel duello del Sciour Pànera: « Se non sta fermo, come faccio a infilzarlo? ». Ora io prego Massimo Bontempelli di star fermo perchè io non posseggo i suoi mezzi, non so cavare il ferro, non conosco che la botta dritta.
1°. Bontempelli scrive: « Bompiani ha detto chiaro che... l’opera narrativa ha da essere più opera di medico che di poeta ». Io avevo scritto invece: « Para più probabile che il romanzo... sia scritto da un medico piuttosto che da un letterato ». Non era una legge, come Bontempelli la fa apparire, ma una sola e dubitativa constatazione di fatto, che molti scrittori celebri da Doeblin a Huxley, a Carossa, a Malraux, a Celine, ad Axel Muntile, a Wilder sono medici. E per quanto riguarda noi, avvertivo che « la posizione di chi scrive si vorrebbe diversa: non polemica ma interpretativa, non si cerca il medico, ma il registratore selettivo ».
2°. Bontempelli scrive: « Ora che Bompiani ripiega qualche sartia, che riporta il discorso sulle cose generali — romanzo collettivo nel senso di romanzo corale, l’uomo in rapporto con una totalità... », quando io avevo già scritto (sempre nel primo articolo): « appare sempre più urgente che qualcuno ci spieghi quel che accade in noi in rapporto a quel che accade intorno a noi... Il romanzo in formazione dovrebbe essere il racconto di fatti collettivi, oppure la proiezione sulla massa di fatti individuali: in altre parole o sociale o corale ». Dov’è la diversità?
3°. Bontempelli scrive: « Ora che Bompiani mi ammette che nelle genealogie debbano aver luogo i nomi di Verga e Nievo... » e io avevo scritto: « Volutamente sceglieremo il materiale sperimentale soltanto fra gli scrittori stranieri... ». Lui poi ha vitato Verga; facendo un passo più in là io ho citato Manzoni. Di nome in nome potremmo risalire al Trecento.
4°. Bontempelli scrive: «Nessuno ha potuto contestarmi che questo (« l’arte narrativa intesa come studio analitico e strettamente veristico ») è gusto e tendenza da umanità malata e disfatta ». E io avevo scritto: « Io parlo del reale, perchè Bontempelli trascrive verismo? Per avversare una tendenza egli la identifica con i sottoprodotti e non s’avvede a quale equivoco davvero velenoso possa dar luogo la confusione ».
Potrei continuare, ma penso che basti per dire che parliamo di cose diverse e che l’equivoco da me temuto si è purtroppo verificato. (Del resto, è nella natura delle polemiche, specie quando uno ha la tua maestria, Massimo). Tanto è vero che Luigi Chiarini (Quadrivio, 22 Aprile) scrive dì « concezione tutt’affatto materialistica », spiega che lo scopo sarebbe di « sapere quanti Italiani dormono su materassi di lana, quanti siano affetti da podagra eccetera », per finire nel solito generico che « tutti i nostri romanzi sono collettivi », dopo aver osservato, di passaggio, come il triangolo (da me usato per tentativo di maggior chiarezza) sia il « simbolo della massoneria» (sic). Quanto ai Proust, ai Doeblin, ai Dos Passos sono respinti in blocco per « il semplice fatto — dice Chiarini — che detestiamo le voci bianche ».
Critica letteraria?
A me preme che Bontempelli, ben degno interprete degli scrittori italiani, risponda alla domanda, da lui elusa, se « egli crede che. considerando il nostro mondo solare sia pure con la stessa ansia del reale, si avrebbe necessariamente la rappresentazione di un mondo di coleotteri ». Qui è intervenuto l’equivoco. su questa confusione mi sono state attribuite, come s’è visto, cose che io non avevo scritte. E poichè la risposta è ovvia, se è vero, come Bontempelli dichiara, che « andiamo da tanti anni tutti d’accordo invocando un’arte aderente al tempo », stia alla sostanza di questo accorrlo e con la sua grande autorità ne aiuti, non ne ostacoli la comprensione. Non vi può essere dissidio sul modo di intendere tale aderenza perchè esso è lasciato al singolo scrittore.
In questi tanti anni quali opere, son venute fuori in Italia che esprimono, che interpretano, che rispecchiano io spirito del nostro tempo? Si può fare qualche cosa per aiutare la nuova fioritura?
Questo è l’importante.
Non sembra utile il mio tentativo? Adottiamo il tuo, il vostro, ma quali sono?
Per parte mia, sarò pago se qualche scrittore sarà indotto dalla discussione a nuovamente riflettere, a guardarsi intorno, a considerare i mutati rapporti politici, sociali, economici, i mutati valori spirituali, il mondo in cui viviamo, che sempre più si allontana da quello che lo ha preceduto. Il romanzo, come del resto ogni altra forma artistica, ha fatto un salto in questi vent’anni? Sì, ovunque meno che da noi. La esemplificazione di Joyce, Doeblin e Dos Passos ecc., vuol essere un incentivo, la dimostrazione che, pur non essendo essi valori definiti e forse essendo contingentissimi, hanno contribuito nei loro paesi a dare un colpo alla narrazione tradizionale. Questo è il punto.
Citar Verga è Nievo non serve, proprio perchè, come Bontempelli dice e come altri aveva già detto, « ciascuna generazione letteraria non data, naturalmente, che da se stessa ».
In parole povere, si vorrebbe che anche da noi gli scrittori avessero la coscienza di queste mutate necessità narrative.
Valentino Bompiani.
Il romanzo collettivo (Disegno di Bartoli).
Collezione: Diorama 25.04.34
Etichette: Alberto Moravia, Valentino Bompiani
Citazione: Alberto Moravia e Valentino Bompiani, “La tenzone del "romanzo collettivo",” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1563.