La macchina (dettagli)
Titolo: La macchina
Autore: Nino Savarese
Data: 1931-09-23
Identificatore: 163
Testo:
La macchina
Allorché fece la sua prima apparizione nello stradone deserto, con quel chiasso di tinte sulle assi nuove, i contadini che guardavano facendosi schermo con la mano non sapevano che cosa fosse quel baraccone trainato da bovi, ma sospettarono subito trattarsi di una di quelle futilità che alla fine capovolgono le loro convinzioni più radicate, uno di quegli ordegni che fanno saltare in aria il passato.
Il suo aspetto era quello, noto, delle cose sospette, che però celano un segreto logico ed un’astuzia senza scrupoli. Uno di quegli ordegni che prendono l’uomo moderno per il collo dell’utile, paralizzandogli il cuore ed il cervello.
La macchina cominciò ad ingoiare i covoni ed a stritolarli rabbiosamente con la sua bocca ferrata, di mostro.
Il corpo tozzo, a tinte gialle e rosse, che finiva nel bruno cupraceo del motore Fordson, scoppiava e sussultava senza posa.
I contadini, in giro, stanno a guardare stupiti i rigurgiti del grano che vengono fuori da quelle fauci riarse, già infuocate dall’attrito dei metalli. Mentre, poco discosto, le mule e le giumente, lucide, calde, ferme, sotto il sole, affondano il muso nelle stoppie. Ormai inutili alla trebbiatura, aguzzano le orecchie, e guardano anch’esse da lontano, non umiliate, ma sorprese ed indulgenti.
O
I vecchi contadini osservano il grano nel palmo della mano, e scuotono il capo. Dicono che vi manca qualche cosa. Strana questa sensibilità, in gente cosi rude e salvatica, ma è certo che i loro occhi stupefatti, e quasi spauriti, hanno scoperto un delicato segreto: hanno avvertito che questo grano non ha storia. Quel che manca è il colore del tempo, che nessuna perizia di tecnici, coi loro congegni per la brillantatura, potrà simulare: manca il ricordo delle tante cose eliminate ed eluse, con un vago senso di peccato.
Le lunghe giornate di sole sui mucchi delle spighe; il calpestio delle mule e delle giumente, dagli zoccoli scintillanti, mutati in mezzelune d’argento tra il giallo lucido dei culmi; i sereni pleniluni, distesi come sudari dalla notte pietosa sull’immane fatica dell'aia; e poi l’aereo giuoco dei chicchi col vento, invocato, con la fede o con la magia, in soccorso della fatica dell’uomo; e quello spogliarsi, folleggiando alle folate, dell’ultimo velo di pula, che nascondeva la bionda carne dei chicchi, e il loro stridulo riso nel raccogliersi e cadere nel conico letto del mucchio; e infine, il lavoro di staccio e di pala, fatto con l’aiuto delle donne, venute anche esse sull’aia ad ingrossare la folla degli uomini per quella rituale parata, grave, ma festosa, della messe; e manca il sacro sudore dell’uomo. Forse, da tutte queste impronte, il mucchio del grano d’aia splende nella casa del contadino come se dentro nascondesse una luce d’oro.
Anche i tecnici si sono allarmati per la mancanza di questa luce, la quale, evidentemente, ha un suo valore commerciale. Ma la preziosa pàtina, che si forma col lavorio degli zoccoli ferrati e col sole, non si riesce ancora ad imitarla, nemmeno con la brillantatura.
I vecchi contadini guardano, e scuotendo il capo ripetono sempre che a questo grano delle trebbiatrici manca qualche cosa. La Dea Comodità questa volta non li ha incantati. Anzi, li prende, forse, un’oscura nostalgia delle cose superflue. Alla fine, non vogliono credere che solo scopo del seminare era quello di raccogliere.
Al termine di un anno di dure fatiche, brillava ai loro occhi fiduciosi la festa delle messi mature, il cui insegnamento non venne loro da altri uomini, bensì da una Dea, più siciliana che greca, la quale la istituì per celebrare il primo raccolto di grano. E forse anche quello era uno scopo della loro fatica.
Ché in mancanza di uno scopo unico e certo della vita, può darsi ce ne sieno tanti, quanti sono i nostri atti che tengono de! rito, e si concludono, da soli, ne! giro stesso della loro attuazione.
O
I vecchi contadini guardano gravi ed assorti il mostro che aumenta la sua rabbia, aizzato dai demoniaci serventi che vi ronzano intorno. La loro scontentezza deve aver radici molto profonde.
Al dilacerante fragore delle ruote, essi vedono, forse, andare in frantumi, e disperdersi, la storia delle cose e la loro leggenda.
Nel giro di poche ore la lunga vicenda della messe è conclusa. Ma a nessuno di questi uomini, che guardano in giro il mucchio del grano bello e stacciato, ridono gli occhi, e il grano stesso sembra morire a poco a poco in una luce fredda ed irreale.
Non c’è aria di festa; non quel senso di approdo felice a quel cerchio di terra accuratamente segnato dalle erbe prima, poi dalle stoppie, e sempre amorosamente tenuto, che faceva, dell’aia, la base di un tempio ideale, agreste e familiare. Ma piuttosto un grande disordine che si dir pana a fatica; un’ansia che cade repentinamente in un torpore malato.
O
Ma ora nei campi, che videro, sotto, la canicola, l’apparizione del mostro ritinto e grottesco, si è fatto un gran silenzio. Dai monti violacei scende amorosamente la sera. La macchina, ferma, ha perduto la sua fragorosa potenza e sembra piuttosto una enorme cassa vuota ed assurda.
Gli uomini e gli animali, alla scarsa luce del crepuscolo, con quel distacco delle ore calme della stanchezza, la riguardano come un ingegnoso gingillo per giuocare col tempo.
Nino Savarese.
Collezione: Diorama 23.09.31
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Citazione: Nino Savarese, “La macchina,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/163.