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Titolo: Il conservatore

Autore: Camillo Sbarbaro

Data: 1934-06-20

Identificatore: 1934_274

Testo: Il conservatore
Sebbene, col nuovo conservatore, l'Herbarium non gli dia più che amarezze — si vede dal pomo d’Adamo che gli si incanta — dall'Herbarium il vecchio conservatore non si sa astenere.
Capita alle spalle, come in un’ispezione di sorpresa; silenzioso, che lo sguardo va da sé a verificare se è scalzo. Ma il bello è vederlo arrivare.
Il naso in aria, quasi lo guidasse il fiuto, s’avventura di sala in sala; sfarfallandogli gli occhi che il calare che le palpebre vi fanno come per troppa luce finisce d’accecare; le mani, dove il senso della vista è sceso, in avanscoperta, a riconoscere dalla grana del muro, da una falla nel legno, la rotta.
A un passo lo impugna il tant’è del successore: ostacolo cui egli non s’attende mai e dove si urta il suo procedere fantasma.
Arriccia il naso: pare risputi una mosca; e subito — come, in virtù dell’arresto, farebbe quello, scollato, d’un fantoccio — il capo gli si mette ad oscillare; non si sa se di disapprovazione o di assenso; mentre, non sorvegliato dagli occhi, un sorriso che la sa lunga gli divaga pel viso scialbo e spelato.
Preso per la strozza dalla cravatta a macchina e ingombro con ogni tempo del paracqua, così resta, strapiombando un po’ da un lato, il cappello in mano, ad esporsi quant’è lungo alla vista; chiuso da parervi catturato nell’abito che con gli anni gli si è indurito addosso; ed allora si avverte che le gambe lo recano non persuase e che le scarpe contraddicono la sua venuta, accennando con le punte in altre direzioni...
* * *
Eppure, non inciampasse in costui che tra i seccumi fuma francamente la pipa e bestemmia da farlo trasalire, che farebbe Perasso, qui affiorato come la gallozza dal fondo?
Al suo modo, suppongo, frequentano i trapassati i luoghi ch’ebbero famigliari.
Qui egli apprese, ragazzo, dal padre a distinguere la foglia seghettata dall’intera, il giglio dall’aglio. Un po’ per giorno, trent’anni durante, tolse in collo, pericolando sulla scala, i tremila pacchi che inzeppano gli scaffali; spolveratili, uno alla volta li riabbracciò per riportarli lassù. Adattata la falsariga nel foglio intestato, qui fece la corrispondenza della sua vita; mise in quarantena nel ripostiglio l’oggetto in soprannumero da trafugare; intascò il pizzico di spilli, la presa di pennini; incartò per casa la lisca di sapone... Scozzonato dalla primavera, v’inventò la scusa dell’assenza: che gli pesava appena fuori; ma non gli toglieva la sera, per frodare il solito minuto all’uscita, d’ingobbirsi sotto la finestra di pianterreno, donde la necessità di romanzare la propria vita gli figurava il direttore in agguato...
Annusata l’aria, toccato — e, piuttosto, urtato — qua e là, qui oggi si avvilirebbe, moscone dopo le capate nel vetro.
E invece, a guardarlo adesso, diresti che — se l’altro nell’Herbarium oggi attira le serve e spaccia al fiorista compare le orchidee della serra — egli vi abbia, trent’anni durante, battuto moneta.
Tant’è e quello strilla dove lui parlava col fiato anche oggi una capatina! ed attacca a dire del gatto che, comunque sfrattato, ritrova la strada di casa.
Perasso agita il naso: pare ne distolga un insetto ed è la botta che storna da sé. Il nodo gli si inceppa nel collo. Ma affaccia lo stesso all’altezza dell’anca la mano e si informa che si fa che si fa... (Non la porge, la mano, e tantomeno la dà; la mostra: un campione; presentata di costa, tenuta d’un pezzo e subito rintascata l’altro non se l’avesse ad appropriare). Sa, sa... Le parole che quello butta, lui le mastica: Podostomiacee, Terebintacee... Se l’aspettava: sempre perduti dietro quelle bazzecole... E il filo di riso che gli scola sul mento, agli angoli della bocca, lo argina dei labbri, come si fa, per non scoraggiarla, sulla mania che tien buono il mentecatto.
L’altro allora gli addita — gli rinfaccia — il nuovo semenzaio.
Quello delle migliorie è il tasto che al vecchio conservatore scopre la gengiva come il tentativo di ringhio al vecchio cane stuzzicato.
Non per questo Perasso si scrolla. Quasiché il semenzaio fosse quello, un po’ di attenzione — penosa e ghignante — l’accorda al dito indicatore: un’attenzione di compiacenza, che il capo condanna. Alla miglioria, che di barattoli etichettati copre una parete, tiene il dorso testardo — neanche ciò che l’altro gli annunzia fosse l’asino che vola.
Disanima, semina scoraggiamento quel capo rapato che tentenna: facciano, non facciano, esso predica, intanto è lo stesso. E allora si capisce che il vecchio conservatore ha scoperto la falla che, a scadenza di giorni, seppellirà ogni cosa sotto un mucchio di calcinacci... Anch’esso, sì, il nuovo semenzaio.
* * *
L’obbligo, che si attribuisce, di onorarmi — e qualche cosa da dire —, oggi lo tira dalla via cui i suoi piedi si son fatti; e nella nuova impazza come un astro disorbitato.
Cammina tra i trabocchetti: ogni dislivello gli apre sotto una voragine, ogni sasso minaccia di capovolgerlo.
Ma come, dopo ogni dissesto, me lo ritrovo accanto in piedi miracolosamente — non testimoniassero lassù per lui gli occhi inani — sospetterei traballasse così di proposito, per tenermi in quest’ansia, per costringermi le braccia in questa posizione di' soccorso...
Ha fatto domanda di essere assunto conservatore onorario e trepida per l’esito. (Mi soffia la notizia in faccia, l’accompagna della palma). Ma, a buon conto, si è trattenuto, andandosene, la chiave che gli consente i suoi sopraluoghi di fantasma. (Ridacchiando, la fa balenare nel pugno; come farebbe il vanesio di quella avuta dalla bella).
Gli chiedo perché non ricorre ad un occhialaio). Sconcertandolo, la domanda lo ferma; e della sosta profitto per respingerlo sui suoi passi.
Ha un parente occhialaio. Provvedersi da lui, per nulla al mondo gli darebbe quella « grascia »; provvedersi da un altro, per nulla al mondo, ad un parente, userebbe quell’affronto.
Dubito che mi canzoni. Di nessuno crederei che vivesse in cecità per si futili motivi. Ma Perasso basta guardarlo per capire che è cosi. Tutto lui è lì a garantirlo.
Me ne spiccio, avanzandogli la mano ch’egli urta della sua di legno; ma, fatti pochi passi — egli non mi scorge già più — mi volgo ad osservarlo.
Al margine della strada, col viso ignudo e semicieco sporto ad annusare il pericolo, il vecchio conservatore pare un implume in attesa dell’imbeccata.
La sua esistenza che nell’ombra del museo tiene appena, qui all’aperto tutto la mette in dubbio, la scarta: dall’indaffarato che lo sgomita non vedendolo, al tassi avventato in salita che gli ingiunge di togliersi di mezzo, di sparire...
Ma lui, vedo, sulla gazzarra si impunta; tien testa. Sollecitato a sparire, accenna di no, dall’alto; cocciuto; di no, di no...
Camillo Sbarbaro.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 20.06.34

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Citazione: Camillo Sbarbaro, “Il conservatore,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1639.