Utilità della letteratura femminile (dettagli)
Titolo: Utilità della letteratura femminile
Autore: Mario Carli
Data: 1934-07-25
Identificatore: 1934_315
Testo:
Utilità
della letteratura femminile
Più volte, nel corso della mia professione di scrittore, mi sono domandato: — È utile che le donne scrivano? Aggiungono esse qualcosa alla bravura solida dell’uomo, consacrata da prove millenarie? Dicono una parola differente, più densa e interessante, più tipica di quella maschile, così che si possa trovarvi un requisito imprevisto, insostituibile, inimitabilmente femmineo, da addizionare all’analoga e sostanziosa attività dell’uomo, non perché il maschio non basti ad ambo i sessi, bensì perché aggiunga qualcosa di squisitamente proprio, che sappia di rivelazione come la parola di un mondo a noi sconosciuto? — Postami più volte questa domanda, ho voluto quasi sempre risolverla con spirito generoso e cavalleresco.
Ma oggi, passando in rassegna le più recenti « vetrine » femminili di ordine letterario, un dubbio ci prende alla gola: fu giusto, fu utile, fu producente, l’incoraggiamento che a mezzo dei giornali gestiti, o della critica da noi esercitata, abbiamo dato alla baldanza femminile, alla sua frenesia esibizionista, ai suoi atteggiamenti pseudo-virili, alle sue manie professionali, alle sue pose di grandezza, quando si poteva respingere la donna nel settore artistico pel quale fu creata e dove, benché chiamata da natura, non seppe mai essere grande: la Musica?
Rispondere subito con un « si » o un « no » deciso? Ahimè, quante volte l’esperienza ci può dar torto o ragione, smentendoci e smentendosi a vicenda! Teniamoci dunque all’esperienza, e consideriamo obiettivamente i fatti, dando il giusto peso agli elementi che concorrono al giudizio dell’opera d’arte, ambiente, atmosfera, visione, disinteresse, vincoli col pensiero e la passione, e che tendono sempre più ad allontanarci dalla concezione artificiosa e ingannevole che si chiamò « l’arte per l’arte », e che tuttavia sussiste, sebbene ribattezzata in svariate forme.
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Quel che si nota nella produzione attuale delle donne italiane — come per altro in tanti uomini, inferiori quindi alle donne stesse — è l’assenza di un fine di qualche utilità sociale o politica o scientifica o statistica o umana, o sia pure artistica, nel senso di quella ricerca di nuove forme, di nuovi valori, di nuove interpretazioni che ha costituito l’ansia e lo sforzo degli scrittori di questo primo terzo di novecento, da Carducci in poi. Assenza di « un fine », vuol dire mancanza di uno scopo superiore all’arte stessa, lungimirante e complesso, che porti all’abbandono della sterile esercitazione di scrivere per scrivere, senza alcun contenuto. Siamo d’accordo che se si dovessero scrivere soltanto libri capaci di mutare volto all’umanità, ben pochi resterebbero ad esercitare professione di scrittore, e non vogliamo accettare la formula assolutista di Guerrazzi, quando negava pregio a quel qualsiasi libro che « non rifà la gente ». Però il tener conto del mondo in cui si vive, dell’epoca che si attraversa, o di quella che si preannuncia, tenendo lo sguardo all’avvenire e con la coda dell’occhio non perdendo di vista il passato, l’introdurre elementi morali e di sensibilità sociale e di panorama politico in una narrazione — che se non è figlia del suo tempo non interesserà né contemporanei né posteri — mi sembra essenziale.
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Ho fatto passare, col più grande interesse e la migliore aspettativa, gli ultimi libri di donne apparsi sul mercato italiano: quasi tutti correttamente concepiti, scritti, in buona lingua nostra, con un po’ di mestiere che trasparisce dalle pagine. Ma idee, quasi nessuna; ma genialità, punta; ma altezza e interesse di visione, neanche l’ombra. Sento che sarebbe più comodo non far nomi; ma non mostrerei il volto della tanto spregiata, in critica, sincerità, e peccherei di vigliaccheria.
Ho passato anzitutto « La fatica di volersi bene » di Maria Luisa Astaldi. Confesso che non ho potuto arrivare in fondo: tanta fatica costa lo sciropparsi quelle 300 pagine di prosa straprovinciale, scritte in modo e stile terra-terra, su una falsariga ipocritamente manzoniana, che non rasenta nemmeno col canocchiale da marina il genio di quel nostro padre del romanzo ottocentesco; giacché scrivere « C’è delle uova, il formaggio... » è un toscaneggiare alla lucchese americaneggiante.
Lucilla Antonelli ci dà in « Tuo marito » un commovente diario di maternità, che è quasi un dialogo col figlio, il piccolo Baby che sarà poi il grande Edoardo e diverrà marito della sorridente Mizugky, la donna del suo cuore. Si sa: noi italiani della vecchia e nuova èra siamo particolarmente sensibili al pathos della maternità e, se siamo uomini interi, anche a quello della paternità. Quindi le lacrime di commozione che questa donna ci strappa col suo racconto ci velano gli occhi di critici, non permettendoci, lo confessiamo, di esprimere un giudizio sereno. Che cos’è questo libro così intriso di buon sangue materno? Cosa antica? Cosa nuova? Non sappiamo, e affidiamo la risposta a uno scrittore che non sia padre, e veda le cose con occhio più disinteressato e sereno.
Anche si resta imbarazzati nel leggere la « vicenda romanzata » di Adele Pontecorvo Pertici, dal titolo «L’amore divenuto visibile », perché l’intendimento di scrivere un libro utile al Regime mussoliniano è così palese ed emergente sul fondo della trama artistica, che spesso il lettore subisce l’influsso propagandistico dei provvedimenti governativi effettuati specialmente in materia di Maternità e d’infanzia, e non riesce più a ritrovare lo stile del romanzo genuino, il quale nella creazione soggettiva deve fondersi con cose concrete tuttavia non espresse sotto forma di Decreto-Legge o di provvedimenti corporativi, se non in via eccezionale e in maniera da non sommergere l’impronta dell’arte sotto il fondale storico o politico.
Un respiro di sollievo si trae dal petto allorché s’inizia a leggere la prima parte del secondo romanzo di Marise Ferro, chiamato « Barbara » dal nome della protagonista, che non è poi il tipo più riuscito fra le creazioni del libro, che ha con più tenerezza accarezzato il personaggio di Vittoria, l’amica del cuore. Respiro di sollievo, perché ci troviamo di fronte a una giovanissima scrittrice (27 anni) che s’è affermata d’un balzo, non dico fra le scrittrici, ma senza dubbio tra gli scrittori di maggior sensibilità e più caldo vigore apparsi in questi anni. Difatti da « Disordine » a « Barbara » il progresso è sensibilissimo, direi quasi visibile, per lo slancio che questa scrittrice istintiva e meditata, spontanea e intensa, ha compiuto dalla prima alla seconda sua fatica.
Questo romanzo, per il quale ben si acconcerebbe l’espressione brasiliana di « obra prima », che vuol dire opera fondamentale, quella che segna uno stile definito, un tipo di creazione artistica, un genere originale che si può prendere a modello di tutta una serie di opere similari, si può senz’altro battezzare con queste due parole, aggiungendo però subito: « Ma adesso basta! Che questa sia la parola culminante di questo specialissimo tipo di romanzo, ma che sia anche l’ultima! ».
Perché anche « Barbara » costituisce, è vero, un genere personalissimo di opera, scritta in uno stile inimitabile, ricco di sensibilità squisita, in un linguaggio ch’è proprio di Marise Ferro come la sua eleganza di dorma, come la sua linea fisica e il suo vestire che sono esclusivamente suoi. Il suo modo di esprimersi, che chiude in una frase tanta modernità e classicità insieme, è senza precedenti (« esse arrivano circondate da una vibrazione che sui loro visi era luce »; « Il crepuscolo disseppelliva antiche tristezze, antichi terrori, antiche delusioni, e le portava tutte ai loro piedi: un elemento insidioso e nero si stendeva sotto di loro: esse vi si guardavano, cercando il loro viso riflesso come in un’acqua e non si vedevano »).
Migliaia di queste espressioni inesprimibili da un qualsiasi altro temperamento di scrittore, migliaia di simili immagini che colmano il libro di una sinfonia lenta come un adagio ma densa e fatale come un’immanente Sonata a Kreuzer. Non s’immagina come l’energia gentile di una donna femminea come s’indovina a distanza, sappia trovare una così complessa ramosità e così folte efflorescenze all’espressione di un mondo niente affatto raro, ma anzi alla portata di tutti, perciò di più difficile espressione.
Difatti, se vogliamo riassumere, l’argomento di « Barbara » è alla portata di tutte le conoscenze. Che cos’è questa storia, se non quella di due anime di fanciulla che s’incontrano a scuola e incominciano ad amarsi, ma così esageratamente, direi incompostamente, anche nella vita più adulta di signorine, e con caratteri, specialmente da parte della più giovane, così affini alle maniere dell’uomo, da lasciarci un’impressione di fastidio come quella che producono le cose eccessive, fuori posto, fuori natura? Ebbene, è dunque la scuola, la vita in comune tra ragazze, o l’età adolescente, che precede quella dell’amore, a produrre simili anomalie? Sia: possiamo anche capire il fenomeno, abbastanza comune nelle giovinette, sconosciuto agli uomini. A patto però di non farne materia di romanzo, se non si vuol ricadere nel naturalismo tipo Flaubert, o in certi romanzi inglesi per signorine giovanissime, dove, col pretesto della moralità (che qui, più che altro nella prima parte, domina incontrastata), si dà da leggere a questo specialissimo pubblico di simili narrazioni, anche se meno liriche e patetiche.
Non siamo moralisti, e non insisteremo nella domanda: morate? immorale? A noi sembra che una cotale letteratura sia, sopra tutto, inutile. A quoi bon difatti? A che può servire questo magnifico sforzo di sensibilità e d’intelligenza letteraria, quando un romanzo così, sebbene fornito di qualità ad usura, sebbene ammaliante e affascinante in ogni suo dettaglio, anche in quelli la cui pateticità o drammaticità non è comprensibile (meno in quello in cui muore Vittoria, un vero gioiello di lirismo tragico), non ci presenta un’idea nuova, non ci sospinge verso un’idealità ancora inespressa, non sveglia in chi legge una sete di eroismi inediti o delle forze vitali che trasformino in nuove forme di bellezza la cifra delle possibilità umane? Idealismo? Certo: ma senza sforzo, senza retorica, come lo si può sentire in un’epoca ipersensibile come la nostra.
Ho fede che Marise Ferro, cui non si può certo dare un tema, è la più adatta a trasformarsi in maniera da riabilitare di fronte alla nazione e all’umanità la categoria più eletta del popolo italiano: scrittori e scrittrici dell’epoca di Benito Mussolini, che è il migliore di tutti.
Mario Carli.
Collezione: Diorama 25.07.34
Etichette: Mario Carli
Citazione: Mario Carli, “Utilità della letteratura femminile,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1680.