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Titolo: Beffa a Traù

Autore: Mario Massa

Data: 1934-08-29

Identificatore: 1934_355

Testo: Beffa a Traù
La sera s’arrampicò sul mio davanzale come un ladro, scavalcò ed entrò. L’ombra fumeggiò in cerca dei suoi angoli e appena li ebbe trovati vi s’accosciò come una bestia. Le piante della ringhiera s’erano raggrumate prendendo l’aspetto di piante finte abbozzate col pennello per una scenografia, i fiori sembravano di cartavelina cucita col filo. Anche i panni stesi sulla terrazza dirimpetto s’erano posti a servizio dello scenografo diventando sfilacci di nuvole.
Colava dal soffitto un caldo da stufa accesa. Il giornale mi si stendeva dinanzi appannato e nebbioso. Trascinate dalla mia ansia di leggere la notizia, le mie mani avevano condotto il foglio a due centimetri dagli occhi; ma l’afa m’aveva inflaccidito, le parole sfocarono entrando l’una nell’altra, s’invasero slargate come da una lente, illiquidirono. La mia testa ciondolò.
La notizia diceva: « Già da molto tempo si lavorava per innalzare un artistico monumento sul posto dove prima sorgevano gli annientati leoni di Venezia. Oggi il Comune di Traù, per realizzare questa idea, ha pregato il Comitato esecutivo della Jadranska-Straza e alcuni banati e città di elargire dei contributi onde rendere possibile l’attuazione di tale proposito. Lo stesso Comune ha pregato inoltre il celebre scultore Mestrovic di eseguire un bozzetto per questo monumento, stabilendo di raffigurarvi l’effige del vescovo bano Pietro Berislavic, il quale nel secolo XVI ha lottato contro Venezia. Lo scultore Mestrovic ha già eseguito il modello e ora si accingerà alla esecuzione del monumento, che sarà ricavato dallo stesso marmo con cui fu edificato a Spalato il palazzo di Diocleziano imperatore romano. Il Comitato esecutivo della Jadranska-Straza, apprezzando l’importanza di questo atto per la propaganda nazionale e per la difesa dell’Adriatico, ha stanziato la somma di diecimila dinari, che verranno impiegati per l’estrazione del blocco di marmo necessario. In occasione dello scoprimento del monumento, verranno organizzate a Traù grandiose feste a carattere nazionale ».
Lessi le ultime parole come se le rosicchiassi. Fosse l’afa o la stanchezza o la fantasia pungolata dalla lettura o la sonnolenza che entrava dalla finestra portata a spalla dalle ombre, il torpore m’imbavagliò. Le mie palpebre s’erano calate come le tendine d’un vagone letto e tutto era ombra, dentro di me e fuori, come se il mio cervello, succhiato dalla scenografia del davanzale e liberatosi così dalle giunture della realtà, mi avesse condotto in una zona magica. M’accadde come nei teatri quando le luci si sono spente per l’inizio della rappresentazione e la rappresentazione trova il nostro corpo affondato in una poltrona ma l’anima è in una zona d’aspettazione che la distacca per imbeverarla nella vicenda ignota. Mi sentivo dunque non più nella stanza ma accanto ad una gabbia nella quale tre leoni agitavano le code come turiboli. Camminavano su e giù simili ai soldati di guardia alle polveriere, roteavano gli occhi tra la fessura delle palpebre e ringhiavano.
* * *
Il venditore si lisciò con le dita la scimitarra dei baffi.
— Eccoli — disse. — Com’era stabilito, li ho lasciati tre giorni senza mangiare. Ha portato i danari?
Risposi « Sì » e trassi dalla tasca un portafoglio a fisarmonica, gonfio da crepare, come mi capita di vedere solo nei sogni. Pagato che ebbi, il mio amico pilota s’infilò in un giacchettone di cuoio e fece: «L’aeroplano è pronto ». Gl’inservienti imbullonarono i tre cassoni sferragliando la saracinesca ch’era stata costruita per l’uscita delle belve, Qualcosa cricchiò come un trapano. Il pilota mi disse: « Andiamo? ».
L’aeroplano sfrecciò.
Così dall’alto i paesi si potevano prendere come i pesci con l’amo. Spingendo innanzi le onde alle due sponde l’Adriatico dava di gomito alle terre. L’acqua slucciolava. Grosse come marenghi le stelle si potevano acchiappare con la mano; se i vetri non fossero stati chiusi me ne sarei portata giù qualcuna a ricordo della gita. Scendemmo a tentoni come i ciechi. Il motore anfanò. Pedinati dall’ ombra dell’ apparecchio sfiorammo il prato. Traù grondava bianco come un ossario.
— Presto! — disse il pilota sganciando la prima gabbia. Anche la seconda e la terza furono calate a terra come cesti dall’albero. Le funi de! congegno s’arrotolarono come serpenti e le saracinesche s’alzarono. Il silenzio fu graffiato dai ruggiti. Annusando la libertà del prato le tre belve dimenticarono la fame, scossero la criniera come fanno i musicisti all’inizio del concerto, con le unghie uncinose rastrellarono la terra; s’innervarono a sfida consapevoli e s’avviarono verso il bianco della città. Una risata crepitò.
— Gliel’abbiamo scoccata! — disse il pilota, tendendo il braccio come una clava.
Non potei rendermi conto come mai avvenisse che il sole acquattato dietro l’orizzonte schizzasse, così velocemente da portarsi in un baleno in mezzo al cielo. Fatto sta che il buiore si snebbiò; ora l’aria scottava e la folla invadeva la piazza di Traù sudando. Il palco dietro cui i leoni di San Marco erano stati sostituiti dall’effige del vescovo Berislavic si alzava come un catafalco. La banda municipale aveva pronte le dita sui buchi degli strumenti. Il maestro gongolava pensando all’onorificenza per l’ottima esecuzione del concerto patriottico eseguito. Intanto un corteo avanzava preceduto dai luccicori delle bandiere mentre l’oratore designato per la cerimonia si raschiava la gola ripetendo dentro di sé come un ventriloquo l’inizio del discorso.
Scrosci d’applausi accolsero l’arrivo di tre strani personaggi dalle facce patibolari. Erano, mi dissero, coloro che avevano infranto a colpi di martello i segni di Venezia. Le donne gettavano loro baci e fiori che essi ricevevano con degnazione, aureolati da un eroismo che non chiede compensi. Giunti che furono avanti al catafalco l’oratore strinse loro la mano e chiese il permesso di iniziare il tanto atteso discorso commemorativo mentre il maestro, approfittando di quei convenevoli, sciabolò l’aria con l’indice dando così l’ordine alla banda municipale di soffiare negli strumenti l’inno patriottico. Applausi e grida si ruppero nella piazza come vetri in frantumi. Il chiasso non sarebbe mai terminato se i tre eroi col palmo della mano distesa non avessero fatto cenno alla folla di tacere, ansiosi com’erano di sentire gli aggettivi elogiativi che già gorgogliavano in gola al famoso oratore. In piedi sulla cima del catafalco, nero sul bianco del lenzuolo che copriva l’effige di Berislavic, l’oratore si accarezzò la fronte pensosa e alzò gli occhi al cielo.
Se non che, riabbassandoli, un tremito convulso lo fece sbiancare. Stava per pronunciare la frase tanto masticata nelle notti precedenti: « Cittadini, i leoni di Venezia che insozzavano il nostro sacro suolo... »; ma non potè neppure cominciare. Disparve in un lampo. Improvvisamente. Non si sa dove. Come inghiottito da una botola. Nello stesso minuto un grido selvaggio parti dai margini della folla e man mano guadagnò il centro della piazza e raggiunse il palco urgendo alle spalle dei tre eroi dalla faccia patibolare. Che cosa fosse avvenuto non si riusciva a capire. Fu visto un luccichio di ottone fuso: gli strumenti della banda municipale si scontrarono e si sparpagliarono. Il calcio d’un musicante contro il tamburo bucò l’aria come il colpo d’un cannone.
Il fenomeno più strano a vedersi era questo: che le facce dei gendarmi gocciavano bianco come candele. Tonfi di porte e finestre battute a chiudersi rintronavano seguiti dal crepitio degli inchiavardamenti. Nel fuggire la folla si scavalcava rotolando come noci da un sacco svuotato. Più forte dell’urlo della paura il ruggito dei tre leoni all’imboccatura di tre strade dilaniava l’aria echeggiando con strappi che non si capiva se d’ira, di vendetta o di risa. In breve la piazza fu vuota come una cantina. I leoni si fecero innanzi zoccolando a larghi passi come nel deserto.
Giacevano a terra accanto al catafalco commemorativo due cappelli e un bastone: che, dopo si seppe, appartenevano ai tre eroi massacratori dei leoni di pietra. All’arrivo dei leoni veri, di quelli che non si lasciano picchiare col martello, erano spariti dietro l’oratore. Furono trovati alcuni giorni dopo dai vigili del fuoco in un sotterraneo. Stretti l’uno all’altro e cerei chiedevano aiuto col fazzoletto come i naufraghi.
Mario Massa.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 29.08.34

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Citazione: Mario Massa, “Beffa a Traù,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1720.