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Titolo: Caduta

Autore: Nino Savarese

Data: 1934-09-05

Identificatore: 1934_363

Testo: Caduta
Nei luoghi del disastro non c’è più nessuno.
Gli ultimi contadini del contorno si sono allontanati, dopo essere stati lungamente a guardare: i soccorritori hanno terminato l’opera loro.
Lontano, nei punti più elevati, forse qualcuno accenna ancora a questo luogo con gesti di meraviglia e di sgomento.
La montagna dalla quale si è staccata l’altissima roccia, mostra l’interno della enorme spaccatura come un chiarore nuovo nel paesaggio.
La mole della pietra che si ergeva come un fiordo sul mare dei campi, giace ai piedi del monte in frantumi, tra profonde frane, dentro le quali sono sepolti un bosco, alcune case, molti capi di bestiame, ed i cadaveri che non si sono potuti trarre dalle macerie.
Improvvisamente si è formato questo nuovo aspetto del luogo, che il sole ha già assunto nel teatro della sua luce.
* * *
Il crollo è avvenuto nella notte. Ma nessuno sa a quale punto. Tutti se lo chiedono smarriti, impotenti a rifare gli oscuri computi del tempo, dai quali uscì segnata quell’ora.
Non fu che un attimo di abbandono della materia: la caduta cominciò con una misteriosa dolcezza, e subito era compiuta. Fu quasi un respiro della pietra che si abbandonava: il soffio che suggella il riposo e la morte.
Il rombo terribile, l’urlo umano dello spavento e il rantolo della morte salirono dopo, dalla valle: effetto impreveduto di quell’innocente moto della terra, che appena svelava una logica nascosta ed estranea all’uomo.
* * *
Milioni di attimi sono passati, e tutti recavano il segreto destino di questa caduta, che nessuno poteva scoprire nel silenzio che avvolgeva la roccia.
Chi ode il rumore della fibra che si sfalda nell’interno dei tessuti della pietra o della nostra carne? Ci destiamo all’ultima molecola che cede.
Così la morte non è che un anello, e forse il più piccolo e fragile, dei nostri mutamenti: l’ultimo.
Quelli che sono scomparsi inghiottiti dalla valanga, si fecero lunga compagnia con la morte, guardando ogni giorno la roccia che si vestiva di vaghi colori alle nuove albe ed ai tardi tramonti. E tutti ci facciamo compagnia con le ombre: dormiamo accanto ai cadaveri, nei nostri letti coniugali; mentre la terra sotto i nostri passi smemorati, con l’insensibile ritmo dell’eternità, muove le sue ciclopiche membra, rivoltandosi nell’acqua degli oceani e nel fuoco dei suoi abissi.
* * *
I primi erranti pastori videro da lontano la roccia, or ora scomparsa, e si avvicinarono: le sue caverne li guardavano come occhi della solitudine, ed essi vi stabilirono i loro ricoveri, chiudendovi per secoli l’ignorata storia di un’epoca.
I primi padroni passarono coi loro seguiti di armati, e l’accennarono, appoggiandovi i confini dei loro feudi; poi sulla terra divisa sorsero gli orti e le case, e una nuova vita si raccolse sotto la roccia come intorno a un enorme tronco fossile.
Intere generazioni di contadini si riposarono alla sua ombra dopo una giornata di lavoro, e le donne ogni sera rifacevano i lettucci ai loro bambini.
E nessuno, nei secoli, né i vecchi dai sonni brevi e vigili, né le madri così pronte all’allarme si svegliarono a metà della notte, inorriditi alla vista, dai mezzi scuri aperti, del nero contorno del monte, dell’alta vetta incombente, alta nel cielo, con terribili occhi di stelle.
Tutti avevano dimenticato le forze che reggevano l’inerzia di quelle pietre; tutti, come ignari bambini, guardavano il variare della luce sulla sua fronte dorata; e nemmeno nei sereni silenzi dei plenilunii avvertirono il cigolio degli invisibili freni che trattenevano da secoli il rombo della caduta.
* * *
Il superstite gira intorno ai luoghi della rovina, ma non osa avvicinarsi.
Le sue gambe, un tempo così salde, vacillano sul terreno: egli trasalisce ad ogni piccola zolla che si sfalda sotto i suoi passi.
Guardando intorno la terra, prova la vergogna di una perduta innocenza: ai suoi occhi ancora spauriti, la linea contorta dei monti, la valle squarciata dai burroni, la via sospesa sulla ruga della costa, i sassi che rotolano con le acque del torrente, le rocce ancora a picco sui campi e le case in bilico sui poggi o sorrette dalle chiome degli alberi trattengono a stento gli urli di crolli imminenti. Guarda, e trema di quel sospetto che incrina persino la tersa volta del cielo.
Trova con l’occhio, nel bianco vuoto, il punto dove scomparve la sua casa, ed alza in gesti vani le mani fasciate, ancora piene di piaghe per il troppo scavare nelle macerie. Ogni sera viene qui a salutare i suoi morti.
E guardando la montagna squarciata ricorda come gli appariva dalla finestrella della stalla, quando il padre, nella lontana adolescenza, lo mandava a governare la bianca mucca. L'alba stendeva un velo di notturna freschezza sul monte, che dal quadrato della finestra fermava i suoi occhi fanciulli come una parete del mondo, come il volto stesso della natura da quel lato opposto ai campi aperti e alle colline sfuggenti nell'azzurro.
Egli si sentiva umile e sereno sotto la mole di quella roccia, ed ora lo prende lo sgomento per la paura non provata nel tempo di tanta innocenza: sgomento della fiducia dei suoi figli, cresciuti miracolosamente ed ora scomparsi, e si ricorda con un peso nel cuore le tante volte che essi da bambini si erano spinti fino alla base della roccia e vi avevano posato le manine nel cogliere i fiori del cappero spioventi dai crepacci.
Nino Savarese.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 05.09.34

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Citazione: Nino Savarese, “Caduta,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1728.