Noi siamo così (dettagli)
Titolo: Noi siamo così
Autore: Mario Viscardini
Data: 1934-09-12
Identificatore: 1934_373
Testo:
Noi siamo così
— Le due. Bisogna spicciarsi. — Edgardo stringe le mascelle dal lato destro avvertendovi un leggero indolenzimento. Quando la dentista, che lo aveva in cura, premeva il dente col suo ditino non sentiva proprio nulla; ma, tra il premere di un ditino e quello di due mascelle, ci corre. — Nella radice dev’esserci qualche malanno. Un dente che stava benone. Peccato! — Veramente no; gioia. Edgardo si mira nello specchio e s’affretta ad annodar la cravatta. Claudia! Eran due settimane che bestemmiava quel nome. Sì; perché non è il modo di fare; un dente che ha soltanto un bucherellino, che non si sogna nemmeno di dolere e, con la scusa di pulirlo, scava, scava: fin che ahi..., « Basta, la prego! ». «Che? Ha paura? ». « Io, paura? S’immagini ». E il trapano via a girare, con un romore aspro come se passasse un aeroplano; e scava; porta via.
Così era cominciata la sua settimana di passione. Uomo sano e gagliardo, non era mai stato in un ospedale. Appena messo piede nella casa di Claudia avverti l’odore di formalina; poi silenzio; attesa sopra una sedia, accanto a un tavolino carico di vecchie riviste inutili.
Claudia lo esaminò con cura; gli ficcò in bocca lo specchietto, accese un fornello a spirito, disinfettò, poi cominciò a scandagliare il dente con le sue dita, sottili, rosee, armate di una piccola sgorbia. Finalmente avvicinò l’affusto del trapano; scelse da una schidionata di punte quella che serviva e cominciò a tarlare. Ecco lo strumento complice che permetteva alle sue manine di scalfire l’osso. Senza trapano elettrico non ci sarebbero dentiste. Che paradiso! Ogni tanto Edgardo le afferrava con due dita il polso. Claudia smetteva un momento; ma era solo per cambiare la punta e ricominciare da un’altra parte.
Gli occhi della dottoressa stavano concentrati nello specchietto; ma ciò non le impediva di studiare, quasi suo malgrado, i lineamenti di quell’uomo che, d’ordinario, intravvedeva appena sulle scale. Egli aveva una fronte che saliva ai limiti dell’intelligenza, senza dare nel pensoso, e degli occhi grandi, dalle sopracciglia disegnate un poco a svolazzo; non si lamentava; sorrideva anzi per quanto è possibile a chi ha la bocca spalancata, con un batuffolo di cotone dentro, uno specchio rotondo fra gengive e mascella, e un trapano che gira.
Edgardo esce di là pentito e maldisposto. Qualche cosa protesta in lui. Era savio guastare del tutto un dente per curarlo meglio? Far morire intossicato un povero nervo e regalargli in bocca, al posto di un bel molare d’avorio, un osso nero, senza vita?
I guai crebbero l’indomani. Il dente non sopportava più nessun contatto; un supplizio il mangiare, pena il bere, difficile dormire; tre o quattro giorni da cani. Perché mai era andato dalla dentista? Che stupido! Claudia, tra l’altro, non era nemmeno una bella donna. Già vicina ai quarant’anni, bionda, con un lindore da monaca che non ha preso i voti; la si sentiva subito distante mille leghe dalla sensualità frivola, come da ogni ingenua passione di femmina; non doveva conoscere gli uomini che sotto l’aspetto di compagni di chiacchiere più o meno interessanti. L’indipendenza di cui gode è infatti un modo di arrivare a quella maschilità che sonnecchia nel fondo delle sue aspirazioni. Non sopporta la schiavitù, né pensa di poter amare un uomo fino al punto di farsene un padrone. Mancando d’istinto materno non ha nemmeno quell’animo disposto a considerarli come grandi fanciulli, che è l’altro modo, tipicamente femminile, di sottometterli; ma la cosa non l’interessa molto. La sua femminilità, assorbita dai doveri della professione, si sazia della propria conquistata autonomia.
La superiorità fisica del maschio le ispira disgusto; ha però un debole per l’eloquenza; ama di veder atterrate le sue ragioni pratiche e puerili con l’impeto di una logica essenziale o di un linguaggio metaforico abbagliante; Edgardo la diverte. Egli è uno spirito temerario ed estroso, bambinescamente pieno di confidenza in se stesso; non dubita un momento di poterle piacere e Claudia gli si rivela a fioco a poco, come uno di quegli esseri che, trascurati dalla bramosia maschile, non attendono che un invito all’amore e la tenerezza di uno sguardo simpatico.
Terminando di vestirsi Edgardo rimugina la situazione con quell’intuito d’insieme per cui tanti fatti distinti nel tempo si presentano in un tutto panoramico dominato da un colore fondamentale: gioia o tristezza. In questo caso era gioia. Edgardo camminava sicuro verso lo scopo; tra pochi minuti l’avrebbe raggiunto. Schiacciò il dente. Nessun dolore più. Oh brava Claudia! Cominciava quasi a convincersi che avesse fatto bene a uccidere il nervo. Ma costasse pure un dente e due settimane di pena; una donna come Claudia valeva tutto ciò. Le ultime sedute, durate solo pochi minuti, erano finite in colloqui, conditi di tè, pasticcini e carezze.
Chi si sarebbe mai sognato di scoprire, sotto quel camice bianco e dietro quegli occhiali di tartaruga, una donna così sensibile e appassionata? Ah, se non ci fossero stati i malati ad attendere e l’assistente a camminare nel corridoio, e la domestica, intrigante, capacissima di origliare alle porte! Ma questa volta l’appuntamento era di domenica. La dottoressa non aveva nemmeno ricorso all’ipocrisia di dirgli che tornasse pel dente.
Edgardo passò da una pasticceria a provvedersi di tartine. Si procurò pure un mazzo di fiori; le donne sono sensibili a questi omaggi. Regalar loro qualche cosa è come dire: quel che fate non è per vostra voglia, è solo per accontentarci. Alle due e mezzo, puntualmente, suonò il campanello alla porta di Claudia. Venne lei stessa ad aprire e si nascose subito dietro l’uscio. Civetteria? No. Timore che qualcuno dalle scale la potesse vedere. Edgardo s’inoltra; è trionfante, padrone.
Ora si compiacciono di chiacchierare; hanno tempo davanti. Ricordano, confessano, ornano di parole chiare tutto il mistero del loro conoscersi ed attrarsi. Edgardo bacia quelle manine, pensando che l’hanno curato; e Claudia sente per lui una tenerezza che viene forse anche da quell’obbligo in cui si trova di causargli dolore; ella ama un poco tutti i suoi clienti; almeno quelli amabili. Ma frattanto la loro intimità va facendosi più viva; tocca i limiti del possibile; quei limiti che Claudia non può infrangere.
— Che sono io per lei?
Ecco una domanda che Edgardo non s’era posta; si trova imbarazzato a rispondere. Che cos’è Claudia per lui? Che può diventare? Quando l’istinto non è frenato, questioni simili sorgono dopo, a cose fatte, e ognuno le risolve in qualche modo; sboccano in tragedie, nozze, legami che durano talvolta tutta la vita o si rompono, così, come fili di ragnatele. Ma né Claudia, né Edgardo sono impigliati in una passione senza limiti.
— Perché facciamo questo? — chiede la donna.
— Chi lo sa! — risponde l’uomo. — Noi siamo così!
Il gelo della ragione li impaccia, e Claudia resta insuperabile. Oh com’è ridicolo l’uomo preso nella trappola d’amore, che non sa uscirne, né sfondarla. E com’è compassionevole la donna che ama e non osa, che desidera e inorridisce.
Edgardo sa le armi dell’eloquenza e quelle della tenerezza; ma ignora la brutalità che rompe gl’indugi e schianta le resistenze. E Claudia soffre; si dibatte, ansima; il suo povero cuore le dà sussulti sinceri e tremendi; no, non le è possibile di cedere a un invito; e nemmeno alla violenza; ucciderebbe chi la tentasse.
Edgardo cava di tasca l’orologio; le quattro. Si ricorda d’aver dato appuntamento a un cliente per le quattro e mezzo; è stanco.
— Devo andarmene!
Gli occhi della donna si fanno teneri e tristi. Edgardo si alza, apre l’uscio del salotto e infila il soprabito; non ha più fede, né pazienza. Abbraccia la donna quasi per dovere. E, a un tratto, la sente più vicina. Piegandosi sulla sua bocca per dirle addio, avverte una mano che lo accerchia stringendolo, che lo riconduce in salotto e lieve lieve lo avvince. Da che cosa dipende la volontà di una donna? Claudia dice soltanto:
— È terribile! È terribile!
Il tempo di riaccomodarsi, di calmare il respiro. Edgardo consulta l’orologio; le quattro e cinque. C’è dunque modo di tener la parola anche al cliente. Claudia gli pare un genio dell’amore; una creatura adorabile. Tirarlo fin lì, sul punto di andarsene e poi... dargli modo persino di arrivare in tempo all’appuntamento. Tutto ciò è così perfetto che riesce persino ridicolo. La battaglia è finita. Che rimane da fare? Come alpinisti che arrivati sul culmine della montagna sospirata hanno dato uno sguardo attorno, bisogna voltar le spalle e discendere.
Claudia non protesta. Soltanto i suoi occhi sono stanchi, diversi di prima, spaventati. Vi si legge la parola gridata: — È terribile! — Ma non c’è tempo da far commenti. Edgardo torna in corridoio a prendere il cappello; il soprabito gli era rimasto indosso. Claudia lo accompagna, semplice, affettuosa; gli rende il bacio di commiato.
Sulla porta egli le chiede:
— Mi vuoi male?
— No — risponde lei; e guarda fuori ansiosa se non passi qualcuno. Poi chiude la porta. Edgardo, sulla strada, allunga il passo. L’appuntamento ora gli preme. Il mondo intorno gli pare tumultuoso e facile; la vita riposante; la donna un’invenzione superba. Bisogna però saperla prendere. — Noi siamo così! —. Schiaccia con forza la mascella. Anche il mal di denti è cessato.
Mario Viscardini.
Collezione: Diorama 12.09.34
Etichette: Mario Viscardini
Citazione: Mario Viscardini, “Noi siamo così,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1738.