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Titolo: Utilità e funzione dei "premi letterari"

Autore: Lorenzo Gigli

Data: 1931-09-30

Identificatore: 177

Testo: Conclusioni

IL « REFERENDUM » SUI PREMI LETTERARI

Vogliamo ricavare qualche conclusione pratica dalla nostra inchiesta sui « premi letterari » che ha messo il campo a rumore in Italia e fuori? Le risposte sono arrivate a valanga, e non di tutte, naturalmente, s’è potuto dar conto, poiché più che del parere personale di Tizio e di Caio, anche autorevolissimi, occorreva far caso del contributo di osservazioni e di proposte che ciascuno era in grado di portare nell’interesse generale dell’inchiesta medesima. La quale ha rivelato che se oggi in Italia s’è concordi nel riconoscere che si batte tutt’altra strada di quella di dieci anni fa, magari anche solo di cinque, quando nessun mecenate era ancor spuntato all’orizzonte e nessuna accademia o grande organizzazione editoriale o giornalistica pensava ad istituire premi letterari (esisteva, qua e là, qualche « fondazione » letteraria, come la Cantoni di Firenze, ma il gran pubblico non ne aveva quasi notizia; e qualche premio sporadico, sorto all’improvviso, come quello intitolato al Rovetta, durò lo spazio d’un mattino al modo della rosa poetica), non uguale concordia si raggiunge quando s’entra a discutere della moltiplicazione dei premi e del modo della loro assegnazione. In codesta direzione, i pessimisti han sopraffatto gli ottimisti e si sono sfogati a dir corna dei premi, attribuendone l’apparente fortuna a una moda transitoria e tacciandoli d’ogni sorta di colpe: intrighi, gioco d’interessi, specchio d’ambizioni, taglierini in famiglia e vai dicendo. Gli altri, i favorevoli (e tra questi son da noverare in maggioranza gli editori che giudicano il premio da un punto di vista eminentemente pratico e dunque tanto più interessante ai nostri fini) hanno opposto una fiducia ragionata, un pacato buon senso, un ottimismo intelligente il cui più chiaro esempio troviamo in una lettera di Calogero Tumminelli, uno dei nostri editori più attivi e di vedute moderne, che non s’è potuta pubblicare integralmente perché giunta troppo tardi. Il Tumminelli crede all’utilità dei premi: « servono — egli dice — in primo luogo a chi li vince, come consacrazione di un giusto giudizio se il premiato è un autore già illustre; e, se è giovane oscuro, come incoraggiamento e promessa di cose maggiori. Servono poi sempre a onorare, anche presso il volgo illetterato e distratto, quella nobilissima fra le arti che è l’arte di scrivere (quando chi scrive ha qualcosa da dire). E servono anche nell’ipotesi, finora non verificata, di assegnazioni sbagliate, perché stimolano la critica a mettere in luce il valore di concorrenti non premiati ».

Questo è un punto della discussione sul quale conviene un poco soffermarsi. La funzione del premio è netta e precisa, non può dar luogo ad equivoci. Si tratta, se mai, di vedere se i premi letterari assegnati sin qui l’hanno assolta. Ora sarebbe ingiusto disconoscere che l’esperienza di questi cinque o sei anni appoggia praticamente la tesi ottimista. Non si può in coscienza affermare che i premi non siano andati a gente che li meritava, che le assegnazioni non siano state giuste e intelligenti. Un poco di cronaca retrospettiva, se non vi dispiace: tra i vincitori dei diversi premi di questi ultimi anni figurano si alcuni scrittori arrivati e consacrati (Ada Negri, nel caso speciale d’un premio accademico che deve riconoscere un’opera e una personalità completa; Francesco Chiesa; Massimo Bontempelli; Vincenzo Cardarelli; Bruno Barilli; Gino Rocca; Fernando Palazzi); ma figura anche una schiera di giovani che il premio ha accostato da un giorno all’altro al gran pubblico e che oggi camminan spediti perché il successo iniziale ha pulito la loro strada d’ogni ingombro e li ha fatti partire in condizioni di favore: in testa Corrado Alvaro, il quale, se si vuole, si stava facendo luce da solo, ma che il premio ha portato d’un balzo all’avanguardia dove meritava appunto d’esser portato; e poi, per ricordare i primi nomi che ci vengono sotto la penna, scrittori nuovi come Angioletti, Gromo, Comisso, Gadda, Perri, Cinelli, Tumiati; o addirittura di primo pelo come il Tomoli, il Dèttore e l’Anguissola. Non è un bilancio favorevole? Ed è proprio detto che, senza l’aiuto del premio, tutti costoro sarebbero riusciti a farsi avanti? « Quel po’ di nome che mi son fatto — ha confessato in questa sede Delfino Cinelli — lo devo in gran parte al premio Mondadori... La mia posizione di nuovo arrivato, di assolutamente ignoto, dava a quella scelta un che di romantico. Non conoscevo i miei giudici, i miei giudici non conoscevano me, il libro era edito da un altro editore... L’innocenza della scelta era più che palese e il pubblico ha l’odorato fino in queste faccende ». Esatto; e di questo, se mai, devono soprattutto preoccuparsi i giudici de’ concorsi, d’apparire mondi di passioni, di svincolarsi dalla tirannia, nobile del resto, delle tendenze e di convincere la gente che il premio è assegnato con tutte le regole e senza trucchi, in piena sincerità. A ciò potrebbero giovare le giurie miste (già funzionanti del resto nel caso di alcuni premi, esempio il Viareggio, che anche per il modo con cui è assegnato e le manifestazioni che l’accompagnano agisce direttamente sul gran pubblico e ne richiama l’attenzione immediata), da sostituirsi alle giurie composte di soli padreterni della letteratura, facilmente, anzi fatalmente, influenzabili dalle rispettive tendenze artistiche. E poiché mi sono richiamato alla testimonianza probatoria del Cinelli, che rivendica così autorevolmente la serietà dei premi, voglio accennare anche ad una proposta-rimedio del simpatico scrittore toscano: che se qualche grande quotidiano dovesse istituire un premio letterario si giovi, meglio che di giurie illustri, del giudizio stesso del pubblico, chiamandolo a pronunziarsi mediante referendum, a base di fascette, talloncini, ecc., da svolgersi in due tempi: nel primo libertà di scelta; nel secondo scelta fra i libri indicati dal maggior numero di lettori. La proposta è intelligente, ma è assai difficile realizzarla per difetto di garanzie: chi potrebbe in pratica impedire, magari a qualche autore ignotissimo, di combinare sul proprio nome un plebiscito? E non ci si allarmi, per carità, del moltiplicarsi dei premi. Pochi, ma buoni? E’ preferibile, verità lapalissiana, la formula molti e buoni (buoni inteso per quanto riguarda il meccanismo, il metodo critico, le garanzie di retto giudizio). Cosa sono otto o nove o dieci premi all’anno in un paese come il nostro dove il pubblico si mantiene di fronte al libro in uno stato di disinteresse cronico, di indifferenza e di diffidenza?

Quanto ai premi massimi e maggiori, un’altra base di garanzia sarà raggiunta il giorno in cui ci si deciderà a incoraggiare tutte le attività letterarie, dal romanzo alla, critica, dalla poesia alla storia, non affastellate insieme, sibbene distribuite anno per anno, ciascuna sotto il proprio segno, sì che non avvenga che un romanzo eccellente abbia ad incontrarsi sul terreno del premio con un’eccellente raccolta di liriche, che un’ottima monografia storica cozzi contro un buonissimo saggio critico: che se premi l’uno rechi naturalmente ingiusta offesa all’altro; ma una volta si assegni il premio al romanzo migliore, e la volta successiva alla poesia, e poi alla storia, e poi alla critica, e cosi via, per ricominciare da capo al termine del ciclo.

Resta ancora da toccare il tema dell'influenza del premio sulla vendita del libro premiato: e qui, se i pareri più autorevoli son venuti dagli editori, è anche vero che editori e autori sono stati concordi nel riconoscere che l’influenza è favorevole, ma non straordinaria, e si ripercuote per poco. Il premio non basta a galvanizzare la gente se il libro premiato non ha in sé elementi di curiosità e di successo che vadano incontro al gusto del pubblico. « Vi sono libri che molti lodano e che nessuno compra » riconosceva il Tumminelli: il che ci permette di concludere che la propaganda in favore del libro non può essere addossata intieramente sulle spalle dei premi letterari, ma parecchi altri pilastri devono concorrere a sostenerne il carico, per esempio, l'organizzazione editoriale e libraria e la preparazione culturale dei librai, oggi trascuratissima. Non ci si improvvisa commessi di libreria, non si vende un libro come si vende un taglio di stoffa: studi bibliografici ed educazione spirituale devono formare il perfetto venditore di libri, ancor troppo raro dietro i banchi delle librerie. O non ci è avvenuto di leggere, proprio su questo foglio, la protesta d’un tale che essendosi recato a chiedere nelle librerie torinesi un volume di versi premiato nel concorso Viareggio di quest’anno, si senti rispondere dai commessi che non avevano mai sentito nominare né il poeta né l’opera sua? Il tema é vasto e delicato; ma, per carità, non vogliamo iniziare proprio adesso una discussione sui librai, i loro meriti e le loro colpe.

Suona, in questo momento, l’ora dei poeti. Sgombriamo il campo dalle polemiche. Signori, largo alla Poesia!

Lorenzo Gigli.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 30.09.31

Citazione: Lorenzo Gigli, “Utilità e funzione dei "premi letterari",” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/177.