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Titolo: Lumachino

Autore: Aldo Palazzeschi

Data: 1931-10-07

Identificatore: 178

Testo: Lumachino

Michele, Michelino...Lumachino, ecco la genesi del suo nome. Michele, nome molliccio già, non era bastato, e non era bastato nemmeno il suo diminutivo, si era dovuti andare verso le bestie; e quali, i molluschi; e si sarebbe potuti arrivare un po’ più avanti. Era l’uomo più brutto del paese: non tutti i paesi hanno la specialità di possederne uno brutto cosi. Era l’ufficiale postale, rimasto solo a quel posto ereditato da padre e madre morti giovani, uno tisico e l’altra di un tumore maligno: era figliolo di due malattie orribili. Movimenti da macacco e molli delle braccia, del corpo esile e storto, il viso emaciato e verdegiallo, miope fino al ridicolo, all’assurdo, gli occhi di rospo sotto le lenti dal cordoncino nero, e la bocca come un taglio inverecondo per colore mollezza ed espressione: un altro male.

Gli piacevano le donne, le donne piacevano a tutti in quel villaggio, come in molti altri naturalmente, ma a nessuno piacevano fino a quel punto e con minor rendimento, giacché a lui non era riuscito mai di averne. Se si fosse contentato di una zitelluccia bruttina, modesta, dimenticata, gialla come lui o verdiccia, di quelle che chiudono gli occhi pure di conservare una posizione decente, avrebbe potuto avere una moglie, ma si, Lumachino amava le donne belle, le più belle, le bellissime. Anche la signora Rondoni, vedova in rigogliosa maturità e che piaceva a tutti, giovani e vecchi, lo lasciava indifferente; ed era la donna che riempiva di sé il contado per la bellezza, l’eleganza, la vita scandalosa in maniera discreta e familiare; nella sua villa faceva qualche apparizione un personaggio importante, un senatore. Neppure lei lo avrebbe reso pago e contento; sotto quella grandezza ed eleganza sentiva l’indifferenza, il calcolo, l’abilità di vivere; Lumachino voleva l’amore vero, quello che scoppia fra i diciotto e i vent’anni, e in lui scoppiava a vuoto tutti i giorni come una molla rotta; che fa perdere il cervello e fare le pazzie.

Quando sentiva dire che una bella figliuola si era fidanzata ufficialmente o faceva all’amore di nascosto, cosa che gli piaceva di più, sotto la pelle verde gli dava un tuffo il sangue color popone, e se gli capitava allo sportello, da lui capitavano tutte, e premurose per le faccende della posta, metteva fuori la testa, le andava sotto il naso come per leggervi un indirizzo, ridendo colla bocca spalancata e liquefacendosi in quel riso. Le risate delle ragazze riempivano la stanza, perché o ridevano o lo prendevano in giro crudelmente. Era contento di essere preso in giro dalle ragazze, e loro non chiedevano di meglio; gli piacevano tanto quelle risate sconvenienti, crudeli; e loro non si facevan pregare per servirlo senza risparmio. Vi sono uomini al mondo brutti ma di una bruttezza virile, che può piacere molto alle donne, ed esercitare su esse una forza superiore alla stessa bellezza, è quello che gli inglesi chiamano il sex appeal (devono averla inventata viaggiando gli inglesi questa espressione), ma il poverino invece che il richiamo del sesso possedeva la spinta per farlo fuggire. E ve ne sono brutti e antipatici, senza il richiamo naturalmente, ma che non fanno ridere; ed altri infine, brutti antipatici e ridicoli, ma almeno non ripugnanti : Lumachino era anche ripugnante.

Quelle voleva Lumachino, quelle che lo sprezzavano, sopra tutte l’Argia, la più rigogliosa e fresca, la più bella di tutte, sbocciata appena, scoppiante di vita e di salute, e che lo scherniva di più. Era innamorata di Giotto, il primo scavezzacollo del paese ; i due ribaldi s’erano intesi e giurati a dispetto di tutti e delle famiglie, ardevano uno dell’altro insieme. Giotto era un ragazzaccio bello e forte, prepotente, che non aveva mai voluto lavorare sul serio; giuocare, divertirsi, andare a caccia e in motocicletta, fare all’amore, ecco la sua passione, con disagio grandissimo della famiglia modesta. Essere Giotto! Era lo spasimo di Lumachino : essere Giotto! Ma mica quello che tolse il vanto a Cimabue, e dipinse San Francesco in una maniera celestiale, macché, a quello non ci pensava nemmeno; Giotto lo scavezzacollo, la disperazione della famiglia, il vituperio del paese, il fidanzato dell’Argia a dispetto del mondo. Argia... in questo nome aspro e dolce Lumachino sentiva il sapore di tutti i frutti della terra, come tutte le fiamme in quel rossore che le bruciava le guance colme, in cui erano una cosa sola pelle e carne. Con quel tesoro nel cuore si sarebbe sentito un Dio, e Giotto invece se lo portava a spasso con tanta naturalezza.

Nessuno avrebbe potuto dare ad una donna tanta devozione, tanta tenerezza, ma ahimè, che le lumache nel tempio dell’amore non ci possono entrare, e devono contentarsi, col cuore gonfio, di strisciare alle porte, perché se c’entrano lo scaccino le manda via a pedate, se non le schiaccia direttamente coi piedi dolci, dolci per lui s’intende, non per le lumache.

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Aveva passato i trent’anni, e per quanto in quella apparente idiozia paresse non soffrire di essere lo zimbello di tutti, sotto il suo riso viscido Lumachino si sentiva indurire una pietra nel petto. Tutto era amaro intorno, e nelle giornate tiepide di primavera non vedeva che abbracci, non sentiva che cinguettio di baci. I giovani si appartavano lungo viuzze discrete, fiancheggiate da siepi in fiore; anche i rami si stringevano o si tendevano le braccia, fra canti, sussurri, carezze, giuramenti (oh, i giuramenti! ), sorrisi, profumi... Così brutto com’era anelava alla bellezza e all’amore.

Le ragazze capitavano tutte al suo sportello per comprare i francobolli o consegnargli le lettere gelose e urgenti, per ritirarle gelosamente od informarsi con impazienza palese se c’era niente. Se ne andavano moge o trepidanti colla risposta. Appoggiato al suo banco, solo e assorto, sobbalzava al rumore delle lettere che cadevano dentro la cassetta: riconosceva le calligrafie, fantasticava sul contenuto; le bollava e chiudeva dentro il sacco, sospirando le mandava al loro destino, seguendole col pensiero fino alle mani del destinatario. Lui non aveva ricevuto mai una lettera d’amore.

Quando Giotto andò a Roma a fare il militare, granatiere, Lumachino spiò le lettere sue e dell’Argia, le riconobbe, l’Argia andava a cercarle dentro l’ufficio e a portarvi la sua, decisa alla lotta per il suo amore. Prima di mettere nel sacco quella lettera, dopo avervi strofinato il naso cento volte, se la portava al cuore, una la trattenne due giorni, non se ne poteva distaccare, e una, finalmente, non la mandò, l’apri, la tenne.

Lumachino conobbe il linguaggio dell’amore, le frasi ardenti, i giuramenti (oh, i giuramenti! ), le confidenze, le rivelazioni intime, le richieste che lo facevano impazzire, la forza per superare tutti gli ostacoli a dispetto di tutti e contro tutti. La lettera finiva: «... nessuno mi strapperà da te! Sarò tua, tua, tua fino alla tomba! ». Era ebbro come se quelle frasi gli appartenessero, e ripeteva: « tua, tua, tua fino alla tomba! ». Altre ne tenne, dell’Argia, di Giotto, di altre e di altri, e, come in delirio, in estasi, aprì tutte quelle che profumavano d’amore, già in cielo e immemore del mondo.

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Incominciarono i dubbi nel paese, i reclami per le lettere non giunte, i sospetti, le scenate dentro l’ufficio, scenate violente. Lumachino rideva, rideva fomentando col suo contegno quella violenza, rideva lieto del crescente tafferuglio di cui si sentiva al centro, un sorrisio idiota e felice ch’era già una confessione; rispondeva ai litiganti disfacendosi di beatitudine sul loro viso minaccioso.

Assodato il sospetto venne accusato, e al maresciallo dei carabinieri disse subito: « Sì, sì sì, sissignore » le aveva prese e lette, le aveva lui, erano sue le lettere. Dichiarato in arresto fu subito tradotto, per mezzo di una vettura pubblica, al deposito del carcere preventivo nella vicina città; col maresciallo e due carabinieri che stentarono molto per sottrarlo al furore della folla che pretendeva far la giustizia colle proprie mani. E le ragazze, fino all’ultima svoltata della via urlarono ed imprecarono dietro la carrozza, inseguendola, mostrando le unghie o i pugni a Lamachino: « Vigliacco! Vigliacco! Spudorato! Vigliacco! ». Emergeva l’Argia nel gruppo, più alta e forte: « In galera! Vigliacco! ». Era più bella in quel furore. E Lumachino, divincolandosi fra i carabinieri che gl’impedivano di vederla, ripeteva sbucando il viso fra quelle braccia: « Tua, tua, tua fino alla tomba! ». E rideva. Anche i carabinieri non riuscivano a star seri, ridevano delle ragazze inferocite: « In galera, vigliacco! ». Ridevano di Lumachino: « Tua! tua! tua!... ». Ridevano della situazione.

*

Giunto al deposito si guardò attorno, si appartò con premura, fece atto di schivare i compagni che lo guardavano fiutando la nuova recluta, soppesandolo, e giudicandolo un imbecille a colpo. Seduto sopra un cantuccio della branda che gli venne assegnata, trasse dal petto alcune carte, inforcò le lenti e si mise a leggerle dimenando il capo e sorridendo come per cantare o per spiccare un volo. « E’ qui per via di donne — disse uno: — Ah! Ah! ». Risero anch’essi o alzarono le spalle senza interesse: « E’ un idiota », un altro aggiunse. Squalificato anche come delinquente. Lumachino alzò il capo, li fissò, comprese: lo sapevano anch’essi, tutto il mondo conosceva il suo segreto, la sua storia d’amore, e al colmo della gioia seguitò a leggere.

Davanti al tribunale, come davanti al giudice istruttore, non esitò un istante, rispose sempre e a tutti:

— Sissignore, sissignore — le aveva prese.

— Quante?

— Tutte.

— Per leggerle?

— Sissignore, sissignore.

— D’amore solamente?

— Sissignore, sissignore.

E ridendo guardava i giudici che ridevano, e rideva il presidente: fu una risata generale.

Venne assolto per idiozia congenita e sottoposto ad un consiglio disciplinare. Destituito dal posto e dal grado, e destinato in qualità di bidello alla sede centrale della città.

Presentatosi secondo l’ordine quella mattina al palazzo delle poste, fu subito condotto nei gabinetti di decenza: « Ecco — gli disse l’impiegato che lo accompagnava: — è il vostro posto; queste sono le vostre mansioni ». Gli mostrò spogliatoi, toilettes, gabinetti, degli anditi, un cortile. « Tener puliti bene questi locali; sono da questo momento sotto la vostra diretta responsabilità; procurate di fare il vostro dovere ». Gli insegnò un ripostiglio: « Lì troverete cenci, spazzole, granate, il necessario per pulire e lucidare: potete incominciare ». E partì.

Lumachino prese una granata, entrò in un gabinetto, incominciò a spazzare, ma dati pochi colpi, stringendo forte la granata sotto il braccio trasse dal petto una carta, inforcò le lenti: « Nessuno mi strapperà da te, sarò tua, tua, tua fino alla tomba! ». Tremava, era felice.

Aldo Palazzeschi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 07.10.31

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Citazione: Aldo Palazzeschi, “Lumachino,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/178.