Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Il figlio d'America

Autore: Adriano Grego

Data: 1934-10-31

Identificatore: 1934_445

Testo: Il figlio d’America
— Proprio in California.
Sulla carta geografica il ragazzino cerca col dito i nomi che gli sono diventati familiari. Strane sono le dita di un bimbo di nove anni: hanno le giunture un po’ annerite dall’uso, certe pellicine slabbrate che contornano le unghie; e si muovono con lentezza come strumenti ancora grezzi. Le vedi lì appoggiate alla carta multicolore solcata da fiumi da montagne da paralleli dall’azzurra distesa del Pacifico, e ti stupisci di quel momento di sosta: ché la loro vera missione sarebbe quella di sfruconare nelle tasche e nelle asole del giubbetto.
È seduto in una posizione inverosimile presso il tavolo. Una scarpa, zoppa nel tacco, aderisce alla gamba della sedia: un ginocchio sbuca adorno di zigrinature polverose dall’amplesso d’un braccio; gli occhi ondeggiano tra pause estatiche, vuote d’intelligenza, e guizzi gioiosi e curiosi.
Sfogliando l’atlante ci siamo fermati per un attimo dinanzi alla Malesia. « Conosci Sandokan? ». « E come no! », mi risponde. Conosce i tigrotti di Mompracem, l’ultima sigaretta di Yanez, le imprecazioni dei filibustieri in agguato: « per mille alabarde, tuoni e fulmini, corpo di centomila bombarde ». Ci s’intende, su questo piano di truculenti ricòrdi, a un battere di ciglio.
Ma subito torniamo all’America. Il ragazzo è diffidente e non ama parlare, con uno che fuma la pipa, dei corsari della Malesia. Eccoci invece sulle coste del Pacifico. Col dito viene su lentamente... Esteros Bay... Monteroy Bay... S. Francisco Bay...
— Ecco — mi spiega — una volta Gianni abitava qui... proprio in città, a San Francisco... Ora invece è in un’altra città, a San Bafuel... è meno grande dell’altra, ma è grande anche San Bafuel.
Pronuncia i nomi stranieri con una specie di golosità. Senti che gli piace parlare di cose tanto lontane, di quel suo fratello grande che vive al di là del mare, che gli manda le cartoline coi francobolli degli Stati Uniti; il fratello che rappresenta per lui, legato ai banchi di scuola, una specie di idolo vagamondo. Durante le lezioni, all’uscita del mezzogiorno, nelle adunate dei Balilla, il ragazzo deve portare con sé, nascosta nel cuore, quella sua specie di ricchezza privata. Chi di voi ha un fratello americano? E il mio non è mica in una parte qualunque dell’America. Il mio fratello è in California. Oscuramente quel nome acquista un sapore di pece e di zolfo. California. Calinferno.
Ecco perché, quando mi ha detto che Gianni si trova « proprio in California », ho sentito come un segreto zampillo d’orgoglio. Come se avesse detto: « È il granduca di California ».
* * *
Anche la madre e lo zio del ragazzo parlano di Gianni con amorosa circospezione. Da otto anni non lo vedono, ma scrive tutti i mesi, lui, e si può dire che è diventato il sostegno della casa, perché i suoi dollari servono per il fitto, per le tasse, per la luce. Insomma, col piccolo guadagno dello zio è colla pensione della madre ora si sta tranquilli. E forse c’è anche il libretto di risparmio nascosto nel canterano, nel cassetto della biancheria da tavola.
Un gran bene gli vogliono: si son dimenticati delle sue piccole cattiverie, del suo quattro in computisteria, di quella volta che aveva tardato una settimana a pagare la pigione perché i soldi se li era giocati alla carambola.
Ma ora non se ne ricordano più. Non che il loro amore non sia di quello buono, istintivo, reso struggente dalla grande distanza; ma anche quei dollari che arrivano tutti i mesi puntualmente, col Biancamano, o col Rex, sono proprio la conferma, per loro, che Gianni s’è messo sulla strada buona. Perché il denaro — soprattutto per chi deve contare, quando viaggia in tram, anche il resto d’una lira — il danaro è il suggello del merito.
In casa ci son tante fotografie di Gianni. C’è quella a mezzo busto, c’è quella di profilo che sembra un divo del cinematografo, c’è quella appoggiato all’automobile: perché in America dicono che ogni sei persone ce n’è una che ha la macchina propria. « Una volta — mi racconta lo zio ridendo alle spalle della donnetta — lei gli ha scritto di mettersi le maglie colle maniche lunghe e di stare attento alle costipazioni. E non sapeva... non sapeva... che laggiù c’era caldo da morire... ».
Ridono tutti e due, rallegrati. Lei si schermisce, alza le spalle, ma in fondo in fondo sospetta che quella gran diavoleria del gioco delle stagioni — qui estate, là inverno; qui inverno, là estate — sia un poco, magari un poco soltanto, merito del suo ragazzone che vive lassù e ha la testa sul collo...
* * *
Mentre ascolto le loro parole oneste e innamorate ripenso a certi brani di lettere che Gianni mi ha scritto. « Tanta fatica, tanto lavoro inutile per stringere un pugno di mosche... Tutto è stato ingoiato nel crac... a casa non ho ancora trovato il coraggio per scrivere la verità.. sanno che le cose non vanno bene come un tempo, ma non sanno là verità... non sanno che aspetto di raggranellare i quattrini per il viaggiò di ritorno, perché mi sembra che qui non ci sia più nulla da fare... ». E in un’altra lettera: «... mio caro, tu non sai che cosa è la mancanza di carità fra questa gente... struggle for life: in Italia questa frase sembra una formula inerte, una formula con cui gli economisti individuano un determinato fenomeno. Ma, vista da vicino, la lotta per la vita è qualche cosa di sordido... Penso che in campagna, da noi, quando si batte a un casolare, qualcuno ti apre... la guerra di tutti i giorni, qui, dopo il crollo borsistico, è diventata senza quartiere... Ritornerò forse in ottobre. Ma tu non dire niente a casa mia. Sapranno fin troppo presto la verità ». In un’altra lettera ancora: «... i rimorsi sono sciocchi, nevvero? Ma ora mi pare di scontare in una volta sola tutte le illusioni di questi otto anni. Vorrei già essere fra voi... sono davvero un po’ stanco... ».
* * *
« Sconosciuto all’indirizzo ». Ecco: penso che ritornerà indietro con questa scritta il grosso pacco che gli hanno spedito in questi giorni da casa. Il grosso pacco che contiene un « golf » di lana, un panettone, due cravatte, e perfino un piccolo aeroplano di cartone, di legno e d’alluminio, che il ragazzo ha costruito durante l’estate.
Adriano Grego.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 31.10.34

Etichette:

Citazione: Adriano Grego, “Il figlio d'America,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1810.