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Titolo: Padreterno

Autore: Enrico Pea

Data: 1934-11-21

Identificatore: 1934_479

Testo: Padreterno
Non amo la caccia, né so capire come persone gentili trovino gusto a imbrattarsi le mani di sangue. Una volta sola, da ragazzo, uccisi con una fucilata un uccelletto in un solco seminato a grano, mentre stava rubando un chicco di grano rimasto scoperto per la svista del seminatore. Un chicco che sarebbe andato lo stesso perduto così scoperto sopra la terra al freddo. Che rimorso, quando ebbi, tra le mani, quel ciuffetto di penne insanguinate, in mezzo alle quali era ancora calda la carne del magro uccelletto, fracassata dai pallini; tanto che anche per utilità era inutile, così mal ridotta con la poca carne che era rimasta attaccata a quella stentata carcassa.
Per meno di un boccone, io gli avevo tolta la vita! Ma è proprio per questo boccone che la gente va a caccia? E riflettevo a tante cose puerili e umane. Non era per questo bisogno di mangiare che il cacciatore si appostava, come un malandrino che aspetti la sua vittima. Sapevo che andavano a caccia anche i Re. E non era stato, mentre andava a caccia nel bosco, che il Re di Castiglia aveva trovata Santa Oliva con le mani, che un angiolo le aveva riattaccate da poco ai polsi mutilati?
O Genoveffa non fu ritrovata dal Re, mentre cacciava nella foresta? E non fu la capretta ferita da una schioppettata del Re, e dal Re inseguita? « Ricercata fu ritrovata nella caverna con Genoveffa e il bimbo, intenti questi a fasciare la ferita alla capretta che belava di paura e di dolore », dice la storia del ritrovamento di Genoveffa, mentre il Re si divertiva a cacciare. E che l’andare a caccia fosse un peccato, non poteva essere perché il parroco era pur lui un, accanito cacciatóre. E seppi che la caccia il parroco non la poteva mangiare per via della gotta che gli pungeva ogni tanto i diti grossi dei piedi.
La caccia del parroco veniva perciò regalata ai signorotti del paese; ma quando c’era qualche ammalato svogliato di gola, in via di convalescenza, qualche uccelletto, il parroco glielo mandava, fosse stato o no ammalato di riguardo.
— Che ci andate a fare a caccia se tanto la caccia non la mangiate? — gli diceva la donna di servizio, che in casa era più padrona di lui.
— Per divertirmi — rispondeva il parroco, ed io lo avevo proprio udito rispondere così.
— Ma almeno, se mi date ordine di venderla la caccia... giacché non
la mangiate — diceva la donna. Ma il parroco rispondeva che i signori veri non vendono la caccia, e che lui era un signore, almeno in questo.
— E poi, sì — diceva. — C’è da pigliarci di molto. Costa più una cartuccia di un uccello.
— La caccia è dunque proprio un lusso da signori — diceva ironicamente la donna. — E, allora, chi la fa per mestiere? Come fa a viverci?
— Chi la fa per mestiere — rispondeva il prete — ci ha le reti, ci ha le tagliole, si fa le cartucce da sé con economia, e tira soltanto a uccelli di merito. Ma io tiro anche per divertimento a un chiuino, che si spappola anche se colpito da tre pallini.
* * *
Il parroco che tirava anche ai chiuini era però un omaccione che fumava i sigari tutti interi, dopo averli tenuti una settimana nel rumine. Giacché non poteva berlo il rumme per via della gotta, se lo fumava con i sigari.
E in paese, quel prete, passava per uno che non voleva mosche sui naso. Era, insomma, un tipaccio, a cui stava bene il fucile in mano. Quando lo vedevo passare, tra gli uliveti, col fucile bilanciato nella mano destra, con i calzoni corti e gli stivali, la giubba di fustagno alla cacciatora e la berretta da macchinista, io, invece di salutarlo, scartavo viottolo per istintiva ripugnanza.
Certo che da quel prete non mi sarei confessato volentieri e se la domenica andavo alla Messa, che diceva lui, era perché di Messe alla chiesetta del mio paese se ne diceva una sola.
Sentivo così là Messa e il predicozzo da quel pretone nemico che adesso, non aveva il fucile, e che visto all’altare si faceva un altro, anche per me, via via che la funzione s’inoltrava e che il mio spirito si allontanava dal ricordo dei fatti che avevano originato la mia ostilità.
* * *
L’andare a caccia non costituiva dunque privilegio, né per i ricchi né per i poveri, né per chi era religioso o no, perché andavano a caccia anche gli anarchici, che in quel tempo nel mio paese ce n’era più di uno. Né l’età contava, né le condizióni di lavoro e d’impiego, né la salute. Infatti la domenica, mascherato da brigante, andava a caccia l’impiegato della posta che aveva poca salute, che pareva tenesse l'anima coi denti negli altri giorni della settimana, davanti allo sportello delle raccomandate e dei vaglia, perché lui era il direttore della posta e i vaglia e le raccomandate erano servizio delicato che sbrigava da sé. Eppure la domenica, con quel musino tutto patito e giallo, la domenica mattina all'alba si sentiva uomo di altra tempra. Si bardava alla spartana: un berretto di pelo e un cintolone con le cartucce, e non si sa come potesse sopportare quel peso di cartucce sul ventre, quel fucile a tracolla e quel volume di roba da mangiare e da bere nella tasca che si chiama « catana » dietro la giacca alla cacciatora di fustagno, e come potesse poi camminare svelto e saltare anche le fosse.
Dove ritrovava tanta energia quello sgricciolo d’uomo ch’era perfino gobbo? E il giorno dopo riera lì dietro lo sportello delle raccomandate che ti faceva pena a vederlo star ritto.
In quell’invernata del mio delitto, per avere ammazzato un uccello, che ho detto in principio, a scagionarmi dal dubbio di aver fatto male, a convincermi che l’andare a caccia è cosa naturale quanto il ballare alla veglia, sorvegliavo quelli del paese che si abbandonavano a questa passione, e nessun cacciatore abitualmente metodico o occasionale sfuggiva alla mia indagine. A chiusura di caccia avrei potuto fornire anche l’elenco dei cacciatori di frodo, come ero stato io quell’unica volta.
E in quell’inverno era venuta anche la neve e con la neve ebbi il ribrezzo e la riprova della crudeltà delle tagliole.
La neve al mio paese viene raramente, e se anche il tempo accenna, come fa spesso, a voler nevicare, basta un po’ di vento dal mare per allontanare dal paese questo pericolo. E comunque non arriva quasi mai a nevicare tanto da ricoprire del tutto l’erba degli uliveti e dei prati, tutt’al più li spolvera e spolvera i tetti. E i campi seminati a grano, dove si e dove no, si fanno bianchi parzialmente per poco tempo. Le strade fangose non mutano colore e quel poco nevischio, franto dalle ruote dei carri, aumenta se mal la fanghiglia, che è già tanta. Le strade non erano certo come adesso a schiena d’asino e cilindrate razionalmente, lisce come i bigliardi, e sgombre di ostacoli ai margini come son ora. Ora, han cambiato perfino colore e sono impermeabili ed anche i veicoli che ci passan sopra non sono più quelli. Oggi sarebbe facile spalare la neve, su quella strada, come si usa in città, ma allora era impresa difficile, tanto era accidentata la strada di solchi e pozzanghere e ingombra dai mucchi di sassi di qua e di là. Così l’eccezionale nevicata non faccia meraviglia se dico che in quell’inverno paralizzò il traffico della strada maestra per qualche giorno.
* * *
Il primo a tirar fuori archetti e tagliole, quando campi e strade apparvero coperti di neve, fu uno scavezzacollo, ritornato dal domicilio coatto; lo chiamavano di soprannome Padreterno perché era prepotente coi simili e ribelle alle leggi.
Padreterno, appassionato della caccia, senza porto d’arme, disse:
— È il formaggio sui maccheroni per me — e piazzò le tagliole e gli archetti, nella strada e nei campi, cosa che fecero poi con rapidità mimetica anche i ragazzi della mia età.
Gli uccelli sulla terra coperta scorgevano il chicco emergente dalla tagliola insidiosa occultata sotto la neve anche quella: e si partivano con l’ali aperte incontro alla morte gioiosi di un chicco di grano. Era straziante veder beccare e sentire il taglio della ferraglia nel silenzio di quella nevicata: e il battere delle ali disperate di non poter mai più sollevare il corpo, inchiodato per sempre sulla terra.
E a questo spettacolo Padreterno rideva contento della preda.
* * *
Padreterno non aveva il porto d’arme. Ritornato dal domicilio coatto rappresentava nel paese l’elemento perturbatore, e il quieto vivere o la vigliaccheria generale facevano sì che Padreterno avesse sempre ragione.
A caccia si accodava al primo che avesse un fucile alla spalla, e appena a, cento metri dall’abitato il fucile del cacciatore passava nelle sue mani. Al cacciatore rimaneva la cartuccera al ventre o le fiaschette dei pallini e della polvere, se il fucile era da caricarsi a bacchetta e stoppaccio.
L’unico a cui Padreterno non si affiancava era il parroco. Aveva provato anche con lui, ma si era sentito rispondere:
— Vai per la tua strada, altrimenti lo sai, che io tiro le schioppettate anche dalla finestra.
Tra Padreterno e il parroco c’era quel che c’è tra il diavolo e la croce.
* * *
La prima domenica di marzo il parroco disse dall’altare che non era più tempo di caccia; che gli uccelli avevano cominciato a nidificare.
E parlò del merlo che è il primo a dare il segno della primavera agli altri uccelli. Parlò del, peccato mortale e delle leggi punitive ai trasgressori. E parlò dei fiori e dei frutti. E dei beni e della signoria che Iddio ha dato, con discernimento e misura, all’uomo sugli animali; e dell’ordine che è rotazione e governo all’uomo e alle cose.
Ma fuori della chiesa, Padreterno, che seppe del discorso del prete e della proibizione di caccia, disse che il merlo era il prete, che non aveva bisogno di aspettare la primavera per certi risvegli... Alludeva a cose disoneste e la gente rideva.
Intanto era sbucato di dietro alla siepe che conduce al bosco l’impiegato postale ammattato come le altre domeniche da cacciatore. Tornava indietro: aveva appreso, strada facendo, il divieto di caccia. Era mogio mogio e scorto che ebbe Padreterno cercò di scansarlo come avesse fretta. Padreterno appena lo vide gli andò incontro, gli levò il fucile:
— Ecco un uomo coraggioso che non si cura dei discorsi del prete.
L’impiegato cercava di riavere il fucile, capiva il pericolo e il danno che ne poteva venire a lui, impiegato postale, e si raccomandava. E guardava di qui e di là se apparissero i carabinieri. Ma Padreterno seguitava a sghignazzare.
— Ho saputo che c’è divieto di caccia e sono tornato indietro — diceva l’impiegato, e voleva il suo fucile. — Che — diceva — non si può portare carico nell’abitato, per questa stupida cosa mi posso compromettere — e si faceva anche rosso di rabbia.
Ma Padreterno allora lo investi:
— Vigliacco! Non hai sparato nemmeno un colpo? — e alzò i cani delle due canne.
— No, no, non si può sparare — gridava l’impiegato — la legge...
Ma alla parola « legge » Padreterno imbracciò il fucile e prese di mira l’uccellino celeste dipinto sulla spalla della Madonna, nella nicchia, che è all’angolo del caffè sulla piazza, e dopo un attimo sparò a coppiola.
Si udì lo schiocco dei due cappelletti d’innesco schiacciati dai cani dello schioppo come se fossero stati fulminanti di un fucilino di latta per gioco da ragazzi.
Padreterno buttò il fucile in terra e scornato si allontanò.
Enrico Pea.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 21.11.34

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Citazione: Enrico Pea, “Padreterno,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1844.