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Titolo: L'evasione

Autore: Riccardo Marchi

Data: 1934-12-12

Identificatore: 1934_513

Testo: L’evasione
Con qualche pena la macchina sbuffa e recalcitra, quasi le costi più fatica che a noi il prendere l’abbrivo per una corsa tanto rapida e lunga. Un attimo ancora d’incertezza; si parte ed è come se una cimosa sia passata sul finestrino, e vi passi tuttora, per cancellarvi prima i volti dei parenti piagnucolosi, poi i simulacri delle case dell’ultimo sobborgo.
Della nostra grande casa sono rimaste nello scompartimento le tre vecchie valigie usate, che i parenti si prestavano fra loro; in occasione delle partenze per i viaggi eccezionali, le caratteristiche (valigie che fanno così brutta figura quando sono portate dalla gente non avvezza a servirsene. Ed ora sono nostre; non le presteremo più a nessuno, perché l’abbiamo rotta finalmente eoi parenti, con le abitudini della citta di provincia e con la casa avita. Ce ne andiamo per il mondo — io e mia moglie — come due uccelli stanchi di stanziare per gli stessi poggi e le solite prata e desiderosi di correre — costi quello che costi — l'avventura del mare.
Decisione eroica, la nostra. Non si sa chi l’abbia presa per primo. L’inedia provinciale stava per spossarci del tutto. A un certo punto, basta con la vita mediocre, maledette siano le consuetudini che ci porterebbero un giorno a rimproverarci la sterilità della nostra esistenza come una colpa reciproca.
Animati da codesta risoluzione, le valigie le riempimmo con un furore quasi pazzesco. Partire, partire presto senza darci il tempo di riflettere, né consentirci un piccolo moto interno di compassione per ciò che si lascia definitivamente. Degli echi dei pianti del parentume ci libera il treno che serpeggia da ore in mezzo ai boschi che vellutano le colline e ai villaggi che ne interrompono la monotonia, per riposarsi dentro le fumose caverne delle stazioni. Via, via, presto, non sostare troppo a lungo, ansimante treno della nostra evasione, fai che non ci raggiungano i fantasmi della vecchia vita.
Se mia moglie, seduta al mio fianco nello scompartimento solitario, schiude un poco gli occhi per leggere ancora una volta la gioia che sprilla dai miei, sorride con l’aria delle donne capaci di seguirci in capo al mondo. Le valigie, intanto, seguono il moto sussultorio del treno; sbadigliano sulle cinghie di cuoio che ne serrano i corpi troppo impinzati; gemono gemiti di sofferenza che non si odono ma che le grinze cinquantenarie rendono visibili: retaggi della vita alla quale abbiamo dato l’addio. Ne compreremo due nuove, non appena giunti alla mèta. Si tratta, malgrado tutto, di valigie decorose e pulite.
Ma ecco che una, ce ne accorgiamo solo ora, mostra una macchia all’esterno. Quel malnato che l’ha trasportata da casa alla stazione deve averla deposta nella fanghiglia, il fango, essiccandosi, ha preso quasi il colore giallognolo del cuoio e non sgarba affatto. Somiglia ad un pezzo di terra dei campi lavorati, rimossa da poco, che il sole farà divenire simil ocra e sulla quale prima o poi, s’ingemmerà qualcosa: la terra del mio paese è rimasta attaccata alla valigia. È l’unica cosa che non so disprezzare. Perché non si tratta, veh, di quella bruttata dal bitume o lungamente compressa dai selciati. È la terra libera dei campi che circondano la città ed oltre i quali i muri delle case si alzano come insormontabili barriere, un pizzico di terra che doveva trovarsi proprib sul nostro cammino perché la accogliessimo e ce la portassimo con noi come una reliquia.
Ricordi come la guardavamo insieme, dagli spalti della città, marezzata verde cupo, con le ondate immobili ed enormi delle colline che sfumano nel cielo? Non fu lassù, pallida compagna dei miei giorni grigi e delle mie esaltazioni, fra le mura turrite, che ci parlammo per la prima volta? Doveva essere l’ora in cui il cielo assorbe tutto il grigio di questa terra etrusca per fonderlo in una caligine cenerognola, l’ora in cui è facile consacrare certi strani patti, come quello che ti consente di starmi vicino simile a un’ombra, ombra, dell’anima, infermiera del corpo. Fedeltà che ti proviene, come un dono che altri considererebbero da poco, dall’avere con me intensamente guardato là in fondo, sospirando un ponte levatoio fra la città antica e l’infinito. Ed ora che ci sembra di averlo trovato, questo ponte levatoio; — il treno va a precipizio lungo la china, sta per imboccare la pianura —, ora ci accorgiamo che la terra si è ricordata di noi che l’abbiamo abbandonata senza neppur salutarla. Si è aggrumata sulla valigia ed un poco dentro le anime nostre. Se ve la lasciamo potrebbe crescervi un verde virgulto come sui tetti, fra tegola ed embrice, dopo il vento e la pioggia di primavera. Ma poiché il sole che penetra nel vagone l’ha essiccata del tutto, bisognerà raccoglierà, prima che cada. Dài qua un temperino ed un poco di carta. Che non se ne perda un grammo. Giunti a destino, le daremo sede più degna dentro una piccola teca. Non pensare che tutto ciò possa essere ridicolo.
Più tardi, sul transatlantico osserveremo il mare come dagli spalti della nostra città, quasi che i grandi cumuli grigi si siano liquefatti nella massa spumeggiante sulla quale è possibile navigare ascoltatilo gli stridi degli albatri e delle procellarie.
Strani uccelli migranti siamo noi se la striscia verde-azzurra che s’intravede dal treno, oltre le pinete, ci fa fremere ora e quasi ci impaurisce.
Addio per sempre, in ogni modo, fantasmi della vecchia vita. Ma di questo’grumo di terra non saprò farne a meno. È veramente una ridicolaggine, ma non la getterò dal finestrino. Chi ha detto, infine, che non si potrebbe tornare un giorno? Abbiamo mascherato a noi stessi ed agli altri le ragioni intime della nostra fuga precipitosa. Abbiamo raccontato agli amici che le dense nebbie che avvolgono nelle sere di autunno la nostra antica città, retaggio dei paduli etruschi, sarebbero riuscite letali ai tuoi polmoni, compagna mia. La città tortuosa di viuzze ed angiporti, dalla piccola vita dei contemporanei che appassiscono sulle memorie del passato, avrebbe, in definitiva, nociuto ai miei nervi.
Ma ora che stiamo per avviarci verso una sterminata pianura d’oltreoceano, che avverrà di noi? Ci roderà, prima o poi, il tarlo della noia. La terra vergine e lussureggiante di laggiù ci tedierà allo stesso modo del fasto insolente sfoggiato dagli uomini che sono pervenuti ad eccessiva ricchezza; sospireremo certamente l’altra terra sulla cui tristezza millenaria i fiori sbocciano solitari, e le primavere si avvicendano propizie ai tuoi polmoni ed ai miei nervi, la terra argillosa stanca di storia e di procreazione della quale serberò nelle mie tasche questo piccolo grumo.
Riccardo Marchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 12.12.34

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Citazione: Riccardo Marchi, “L'evasione,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1878.