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Titolo: Spacco

Autore: Mario Massa

Data: 1935-01-16

Identificatore: 1935_55

Testo: Spacco
Da un interstizio all’altro devo essere scivolato nel sottosuolo della città. Ho forse imboccato l’antro delle fogne? Le case mi pesano sulle spalle, mi muovo come se portassi un baule, i miei passi si spingono innanzi faticosi come se guadassi un fiume. Sotto i piedi sento la melma delle chiaviche. Ci son buchi di porte e finestre, anche uomini qua e là; ma non bastano a persuadere. Le mura sudano, le pietre son viscide, l’aria gommosa; le lampade balenano e spariscono come i cerini di chi s’è smarrito. Finalmente, di vicolo in vicolo, risalgo come un palombaro.
Sboccando, la piazzetta è messa di traverso; bisogna attraversarla camminando ad angolo acuto se si vuol giungere alla balaustra per sapere dove ci si trova. Ma dove, se c’è una conca? Hanno aperto i sacchi delle case e le hanno scaricate giù. Cadute a capofitto, le fondamenta si sono inzeppate l’una sull’altra come le unghie delle galline in una cesta troppo stretta. Le mura son gobbe, le finestre sbandate, i balconi pencolano. Come si reggano i lampioni sugli spigoli ammaccati non si sa. Quel palazzotto non casca a faccia avanti perché l’hanno incollato col mastice. Infine o sono allucinato o cammino sulla cima degli alberi; in mezzo alla città c’è un villaggio senza cielo, ha per cielo un giardino, le foglie sono affumicate dagli abbaini.
Ma ecco una scala a chiocciola. M’arrotolo sulle rampe, sfuggo da un crepaccio, inseguo un groviglio di voci che s’azzuffano e penso che raggiungerò uomini tempestosi e sconvolti. Invece, schiariti dal rettangolo d’un uscio aperto, alcuni giovanotti senza giacca giuocano a morra allegramente e due ragazze accovacciate sugli scalini cantano.
Ora la strada è incassata tra due spalliere di mura; larga, senza case, con due filari di alberi che traboccano dai cigli; e c’è anche una fontanina; e addirittura la nicchia deira Madonna, col lumino. Sono entrato nella strada d’un villaggio? Dev’essere di quel villaggio della conca. Il villaggio è lontano. S'è sperduta e va cercandolo in mezzo alla baraonda della città. Sarà così.
Le campanelle dei tram tintinnano, i clakson stridono: dunque la folla dev’essere vicina. Basterà oltrepassare quel tunnel buio tra le case, discendere per la scaletta. Striscio lungo una ringhiera di ferro. I miei piedi sono malfermi. Ho paura. Se c’è una botola m’inghiottirà. Il buio è spugnoso. Mi sento calare con una carrucola nel fondo d’una cisterna.
—Aiuto! — urlo. — Aiuto!
È come se gridassi dalla bocca d’un imbuto. L’eco risale e mi ripiomba sulla gola.
— Aiuto! — tornò ad urlare.
Finalmente, lassù in alto, l’urlo ha acceso una finestra. Sembra una lanterna. Dunque vengono a salvarmi.
— Che c’è? — chiede un uomo col berretto.
— Ha bevuto — dice l’altro. — Aiutiamolo ad alzarsi.
Coi polpastrelli, come un cieco, seguo la parete muffosa delle mura. Non sbagliavo. Ho fatto bene a gridare. La strada è chiusa.
— Chiusa? — mi ride l’uomo col berretto incespicando sulle sillabe. — Ma salga di qua. Non vede?
Un corridoio con una striscia di mattoni. Svolta in una salita da capre. Arrampichiamoci. Le case, i vicoli, il cielo, non li vedo, sono una striscia di vento. «Se non la ritrovassi più? Se non la rivedessi più? ». Più, più: è un tonfo che non finisce. Son caduto? Mi sono sfasciato? Mi picchiano il sangue? Ma perché non dovrei rivederla? Vogliono proprio ch’io muoia?
Qualcosa mi sfiorò. Le mie mani sentirono il freddo dei lastroni, i miei occhi riaperti incontrarono degli scalini. Una chiesa.
Come chi non sa più dove andare né cosa fare, senza fede ma senza irrisione, entrai per la necessità bassa e miserabile di rifugiare la mia debolezza sotto i piedi d’una volontà ferma e grave; ma senza credervi; disposto a credere solo a patto che avesse compiuto il miracolo di darmi la pace. Toccavo il fondo della mia viltà. Tuttavia l’umiliazione, l’angoscia, la vergogna, l’ira, la disperazione mi schiacciarono le ginocchia. Bambino, avevo pregato senza irriverenza, ricevendone un conforto; soltanto questo ricordo mi fece restar piegato.
Finché sentii come qualcosa di sincero nel muovere delle mie labbra; ed era infatti il mio bisogno di raccomandarmi a qualcuno che mi salvasse, di parlare, di confessarmi, di pensare che sarei guarito. In questo sforzo un po’ del groppo si scioglieva e nel mormorio dell’Ave Maria c’era una tenerezza quasi dolce a mugolare; come un principio di liberazione; uno spacco sottile contro il quale comprimere il chiuso, uno sfogo al mio dolore che altrimenti si sarebbe rovesciato nella follia.
Dunque io non vidi più il volto di cera, gli occhi di cristallo, i capelli di stoppa della Madonna perché l’aria s’era illiquidita. Anche l’argento dei cuori s’era fuso. I fiori svaporavano. Bagnate dai miei occhi le fiammelle delle candele s'inseguivano sull’altare agganciandosi l’una all’altra in un tremolio solo. Sotto il barbaglio di questo rosso liquefatto la Madonna mi s’avvicinava muovendo le palpebre. Non so come i suoi capelli s’erano venati di bianco e le guance incrinate; e così vicina era che, con uno sgomento di gioia affannosa, la riconobbi da gridare: « Mamma! ». Infatti era 11 lì che avrebbe voluto parlare ma non poteva e tremava, come fa lei quando mi vede soffrire.
Allora non ebbi più vergogna di trovarmi in ginocchio; e anzi mi sarei buttato a terra fino al lembo della veste; e sentii che potevo piangere senza ritegno; tutti i mìei pensieri che s’erano aggrovigliati a strangolarmi la preghiera non c’erano più; nel piangere m’aprivo e mi svuotavo. «Salvami, mamma! », pregavo; e una dolcezza tremula mi si scioglieva dentro come se le due mani sfiorandomi mi portassero via il dolore. « Non sono stato cattivo. Non merito questa condanna », gemevo; e ad ogni parola la mia angoscia si smagliava. « Dammi la forza di rompere questa pena », imploravo, e da dentro nasceva una nuova volontà che mi puntellava i nervi. Non so che cosa, un alito, uno sguardo, una carezza, mi era vicino. Non so da dove, forse dal mio stesso tormento che s’era incrinato, mi giungeva un sollievo. Sfebbravo; mi schiarivo; vedevo lucido dentro di me; come chi ha toccato il colmo del male e s’allenta; riposavo. Sentivo che avrei vinto.
Infatti la piazza luceva come una conchiglia aperta, il rumore schioccava a festa, la gente camminava ringiovanita andando a luoghi desiderati, a luoghi di gioia. Anche il mio passo era franco e sciolto. Ogni tanto mi voltavo. Nessuno m’aveva guardato e chiamato, eppure qualcosa nuova e imprevista, sospesa tra gli svolti delle strade, sembrava mi cercasse. Ora camminavo come se fossi atteso.
Mario Massa.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 16.01.35

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Citazione: Mario Massa, “Spacco,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 13 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1964.