Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Ma non saremo soli

Autore: G. G. Napolitano

Data: 1931-10-28

Identificatore: 197

Testo: Ma non saremo soli

Mi ricorderò sempre di quello scrittore straniero con cui parlai forse tre o quattro volte, mio vicino di cabina nella traversata da Marsiglia a Ceylon. Ora è giusto un anno, la sera del ventotto ottobre, lo pregai di bere con me, ché era la festa del mio Paese. Quando gli feci il nome di Mussolini: « Ecco un uomo che doveva nascere in Inghilterra ». Era straordinariamente curioso di tutto quel che riguardava l’Italia, vi aveva viaggiato nella sua giovinezza, e non gli riusciva di riconoscere per quella stessa contrada, almeno dalle notizie dei giornali: « Dalla guerra in poi, after the war — diceva — ci deve essere stato un gran cambiamento ». E voleva sapere delle black shirts, e m’assaltava di domande. Soprattutto, della mentalità di noi giovani italiani, voleva ragguagli, e così precisi, che quasi m’obbligò a fare una sorta di esame di coscienza.

— Cosa facevamo, cosa pensavamo — what did you think? — noi dell’ottava zona, a Tivoli, aspettando di andare a Roma? Conosceva Tivoli, Villa d’Este gli pareva strano ci fossero stati degli uomini, quasi dei soldati, dei soldati, anzi, certamente, a dormire e a bivaccare in quella villa da innamorati, vegliata dalle fontane. — Dio mio, era così difficile rispondergli parole che fossero meno che vaghe. Ottomila uomini, eravamo, e in ultimo, anche di più, fra Tivoli e Valmontone. Vi fu qualche zuffa, tafferuglio, con i sovversivi. Qualche morto, anche vi fu. A Palestrina caddero tre legionari che c’era proprio il comandante della colonna, sotto i suoi occhi, caddero.

L’ultimo giorno, o il penultimo, così lontani, quei giorni, morì per un disgraziato accidente uno dei più famosi squadristi di Tivoli, Jannarelli, si chiamava. Non avrei più assistito a funerali in cui l’atmosfera di virile cordoglio fosse cosi semplice, e intensa e commovente. Un camerata, era morto, un compagno di giovinezza, e avevo il grande rammarico di non averlo conosciuto, di non avergli parlato, che se ne scomparisse così, dalla nostra vita, prima che avessimo avuto una qualche coscienza che insieme a noi, la dividesse, quell’avventura. E’ molto difficile spiegare certe cose. Ottomila uomini, che non stavano mai fermi un minuto. Ognuno andava, veniva, viveva, in una parola, ed era come se ciascuno avesse un suo mistero, come se ognuno di noi parlasse una lingua diversa, e sconosciuta agli altri. La folla. Vivevamo dentro di lei, come un sasso sul letto di un fiume.

Gli squadristi, poi, bisogna averli praticati, per sapere che gente fosse, almeno quelli della mia terra : popolo. Popolo schietto, il nerbo della mia città era costituito da facchini di piazza, gente fresca della guerra, cui la lotta civile aveva prolungato l’abitudine e l’indifferenza davanti al pericolo. Poi, macellai, fabbri, barbieri e in più quella indefinibile gente di provincia, oscillante fra gli artigiani e la piccola borghesia. Eran quasi tutti giovani, e, i più avevano fatto la guerra. Pochissimi, gli studenti. Pochi i borghesi. La gente del contado formava poi le altre squadre della coorte, agli ordini dei maggiorenti dei paesi. C'erano, a comandare le squadre, avvocati e maestri elementari, e a dar consiglio sino parroci, che sembravano cappellani. Questi squadristi non parlavano quasi mai, non davano noia a nessuno, conoscevano pochissimi di quegli stornelli salati che sapevano di pugnale, di bombe, di donne e di beffa, e che la gente della mia città non si stancava mai di urlare, come dentro una perpetua ebrezza. Stavano abbivaccati nelle grandi sale spoglie di mobili, con le volte popolate di affreschi dove eran stati messi, quasi non osavano lasciare Villa d’Este, e non per timore ci si intenda, ma per quella tranquilla indifferenza della razza senza curiosità, che emigra in America, spinta dal bisogno e dalla aridità della terra, o dai richiami dei familiari arricchiti, ma non dall’inquietudine, e pazientemente sosta nelle anticamere dei Consolati, negli alberghi per emigranti, nelle quarantene, sui ponti dei transatlantici, negli uffici della dogana, da per tutto sosta, sin che raggiunge una casa colonica, una farm, e finalmente il boss l’accompagna sul campo e lì, senza nemmeno dare un’occhiata al paesaggio, con la stessa zappa che s’è portata traverso l’oceano, infilata al fazzolettone della biancheria e delle provviste, intacca il primo solco, tale e quale gl’insegnò il padre, e insegnerà ai figli. Questa è la gente del nostro contado : non pensa, non capisce, non ama che la terra. Era venuta lì, ciecamente, per difendere l’equilibrio della terra, perché le sue leggi non venissero intaccate, la sua amministrazione turbata, la tradizione manomessa. Gente che non voleva sentir parlare di spartizione di feudi, che della proprietà aveva un concetto di uomo d’ordine, che sa come la proprietà si conquisti : con la fatica, il risparmio, i soldi accumulati nelle generazioni, quelli guadagnati emigrando. Il resto, che le avevano predicato gli agitatori socialisti, le puzzava di furto e di sacrilegio. Per difendere la terra, per obbedienza alla sua legge, era venuta a Tivoli, sarebbe andata domani a Roma, riempiendo i treni con lo stesso composto fatalismo con cui gremiva le tradotte dal viaggio interminabile, e traversava l’Italia senza neppure affacciarsi dalle portiere degli « uomini 40 », sino ad Udine, durante la guerra. Tutto il tempo della sosta a Tivoli aveva vissuto senza ansie, e senza preoccupazioni. Erano vestiti con gli abiti delle grandi ricorrenze, gli abiti loro migliori, di velluto, quegli altri di lana turchiniccia ed erta che ancora tessono le loro donne. L’idea di Roma si sposava antichissima, in loro, con quella di una città dove si rendeva necessario giungere come in un pellegrinaggio. Una città che, comunque vi fossero andati, era necessario renderle omaggio, ed eran partiti come per una festa. Quando erano arrivati dai loro villaggi li avevano visti montare sui treni con gote lustre e rasate, domenicali. Eppure sapevano quel che li attendeva, che le doppiette, le cartucciere, i fucili '91, i Mauser, i coltelli da caccia, le roncole, e sino le falci, avevano portato con loro, e stavano tutto il giorno a lustrarli; e se andavano per i campi, era per tornare con rami d’albero da mutare in tortori, come dicevano, e passavano ore ed ore a lavorarseli con i loro coltelli: prima potarli e poi scortecciarli, e quando avevano in mano un bastone liscio e bianco come una mandorla sbucciata, e sino l’occhiello per passarci uno spago, e poter appenderlo ai polsi senza fastidio, gli avevano fatto, era la volta che incominciavano certi pazienti lavori d’intaglio, scolpendovi nomi, date, fiori, come sulle loro mazze da pastore. Infine quando avevano finito, soppesavano il bastone corto e tozzo, senza nemmeno il sospetto d’essersi fabbricato un « manganello ».
« Dici che è buono? » si domandavano l’un l’altro, « Dici che è buono per i comunisti? », e se lo passavano di mano in mano, ragionando gravemente. Parlavano dei comunisti come degli austriaci. Montavano la guardia alle loro coperte, mantelline da soldato e mantelli col bavero di pelliccia; montavano la guardia a turno alla paglia che serviva a tutti di giaciglio, e che era stata distribuita scarsamente, con lo stesso geloso sentimento con cui badavano alle vigne mature, e agli alberi delle frutta. Talvolta cantavano, cantavano canzoni in dialetto, canzoni del loro paese, canzoni di vendemmia e d’amore. Avevano voci istintive e misurate, intonatissime, ché la nostra ferra è quella contrada dove misteriosamente ogni paese ha una banda musicale, e misteriosamente un cafone imbocca una tromba o un clarino, e subito sa suonare. Ascoltavano i miei amici, gli squadristi della città del loro capoluogo, gridare gli inni e gli stornelli fascisti con la curiosità del villano per le cose cittadine. Arrivati al ritornello di « Giovinezza », ché i loro capi li spronavano a non far brutte figure, e che fascisti erano, che nemmeno le loro canzoni sapevano, s’univano al coro con riluttanza, con timidezza; quelle parole nella lingua nazionale non apparivan loro chiare e necessarie come quelle delle loro canzoni. Era questa gente che quando c’era comizio in piazza, o nel cortile o nel giardino di Villa d’Este, vedevi approvare con la testa gli oratori quanto più quelli gridavano, e avevano sonora la voce. Dubito forte che di quelle parole, sulla falsariga dell’oratoria dannunziana, secondo la moda del momento, intendessero qualcosa. Tuttavia, di tanto in tanto, una parola capivano a volo e masticavano, e sussurravano un nome: Mussolini. « Musulini », vedevi allora ripetere da quelle bocche, leggevi in quegli occhi chiari. L’istinto già di allora li guidava verso un uomo che non avevano mai visto, se non fuggevolmente, all’adunata di Napoli, e per il quale non c’era cosa che non avrebbero fatto, dal momento che erano lì, e avevano lasciato i campi e le famiglie e le case. «Musulini, Musulini », il nome suonava come un vento dentro una foresta, tra la folla compatta, e sembrava annunziasse un dio. Di tutte le nostre canzoni una piaceva loro cantare, che la sapevano i pescaresi:

Ma non saremo soli Ché un uom ci guiderà!

Ci guiderà!

Era tutto molto chiaro, lì dentro quei versi. C’era un uomo che non li avrebbe abbandonati, finalmente, dietro cui andare, e cui obbedire, e che avrebbe messo le cose a posto. Era tutto quello che chiedevano. Un capo. Un governo. Una legge. Una stabilità.

E chi è quell'uomo ardito e fiero? — si domandava la folla, e poi da sola si rispondeva: — E’ Mussolini il condottiero.

I contadini cantavano senza riso nella voce, come fossero in chiesa, senza gesti cantavano, con le grandi mani con le unghie nere lungo i fianchi, i visi immobili ed assorti, cercando di figurarselo, quell’uomo « ardito e fiero ». Ma nessuno aveva detto a quella gente che Mussolini stava a Milano dietro una barricata; con un fucile in mano, come loro. E cosi lo vedevano su di una nuvola, galoppare nel cielo di Roma, sopra le cupole.

G. G. Napolitano.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 28.10.31

Etichette:

Citazione: G. G. Napolitano, “Ma non saremo soli,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/197.