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Titolo: Marinaio in ufficio

Autore: Adriano Grego

Data: 1935-04-03

Identificatore: 1935_164

Testo: Marinaio in ufficio
Il giorno in cui un procuratore amante dell’ordine e dell’estetica ordinò che tutti i fattorini si recassero in vico del Gesù a farsi prendere le misure per una nuova livrea color grigio ferro e bordata di rosso, Pompilio fece gli occhi da pesce fritto, alzò un poco una spalla e infine introdusse fra i denti una minuscola cicca di toscano. Una protesta quasi inespressa. Ma più tardi, girando per gli uffici colla giacca della livrea sbottonata e portando i calzoni a bracarella, dimostrò apertamente di non aver simpatia per i bottoni d’oro.
— Pompilio, allacciati quella giacca.
— Va ben, va ben — rispondeva e se n’andava nel corridoio lemme lemme e si allacciava i due ultimi bottoni in basso. Poi le sue dita si fermavano, si rifiutavano di prestarsi a un più completo servizio. Era li, per lavorare, lui, e non per fate il bellimbusto gallonato. Ma non diceva nulla. Solo, il giorno dopo si ritrovava Pompilio con la giacca spalancata su una camicia a quadrettini azzurri.
* * *
Pompilio non parla quasi mai. Pìccolo, tarchiato, colle gambe un po’ storte, cammina per le nostre stanze con un passo cronometricamente costante. È il suo passo. Quello che aveva nei suoi verdi anni camminando sulle plance dei velieri, quello che ha conservato scendendo nelle gargotte del basso porto, pestando la sabbia africana, quello che avrà sempre fino alla morte, collo zaino o senza zaino, colla livrea d’ufficio o senza la livrea d’ufficio.
- Questa busta, di corsa!
Pompilio esce e non accelera il passo. Sa ben lui come si deve camminare a questo mondo. Sa ben lui giudicare. Ma sopra tutto — ed è questa la sua segreta forza — Pompilio sa annusare la gente. Quando arriva qualcuno sconosciuto in ufficio, incomincia a girargli intorno come un cane da fiuto. Impercettibili odori giungono alle sue narici animali: odore di epidermide, di fiato, di biancheria, di pulizia, di nascoste vergogne, di cattiveria, di gentilezza. Sente tutto, Pompilio: come forse un giorno, curvato sul carico della stiva, riusciva a distinguere dalle balle monumentali di mercanzia, fra l’odore del salino della muffa del verderame del catrame, l’odore del portorico genuino o dello zucchero di canna.
Ora, invece, sente l’odore dell’uomo. Quando un ospite nuovo indugia in una stanza, non si perita d’entrare senza discrezione, di fingere d’aver dimenticato un oggetto, di dover rinnovare l’inchiostro in un calamaio. Vuole sentir meglio l’odore. Vuole guardarlo ancora con la sua aria sorniona, vedergli un poco il collo e i piedi e le mani, come un vecchio negriero saputo. Poi, terminato l’esame, se ne esce col suo passo lento e costante di tutti i giorni.
— Pompilio, — gli chiede talvolta uno di quelli che gli sono amici — come ti pare questo nuovo collega?
— Sci — risponde in genovese. — È uno « esperto » (che vorrebbe dire nel suo linguaggio, sveglio e capace) ma non mi sembra un’acqua morta. Meschinetto, dev’essere bravo.
Altre volte, invece, le sue sentenze sono aspre e prive di misericordia. Allora insiste per giorni e giorni con noi, ci guarda con pietà se tentiamo di difenderlo, ci assicura che quello ci farà un colpo mancino, che è falso, bugiardo, « una vera pezza da piedi ».
Poi, espresso il suo giudizio, Pompilio ritorna silenzioso. Non vogliamo ascoltare i suoi consigli? Peggio per noi. Il suo dovere era di annunciare il vento che spirava. — E mi, e mi? — dice. E alza la spalla sinistra senza un’ombra di rispetto per nessuno.
* * *
In tanti anni che ci conosciamo, non ho mai sentito Pompilio vantarsi d’alcuna cosa. Né d’aver cinque figli bravi e robusti che già camminano colle loro zampe, né dei sacrifici compiuti per allevarli, né della propria vita passata, né delle proprie ferite di guerra, né del proprio fiuto, e nemmeno del proprio modo di pensare, scabro ed onesto.
Solo una volta mi portò una fotografia e mi disse, mostrandomela:
— Questa l’ho fatta io.
Era la fotografia d’un minuscolo trealberi, stagliato col coltello nel legno e finito di precisione fino ai più modesti particolari della velatura.
— E questo che cos’è?
— Non vede? C’è lutto. Questa è la vela di taglio, questa la vela di bassa gabbia, il gran velaccio. Questa si chiama la vela di belvedere. Il trinchetto. Io ci ho messo anche il marabotto che non si usa mai... Ma così, per far vedere che c’è.
Sorrideva un poco, mangiandosi la punta dei baffi e guardandomi di sotto in su. E c’era un poco d’orgoglio, un’ombra d’orgoglio, in quel modo con cui Pompilio, vecchio uomo di mare, guardava me, uomo di terraferma, minuscola « patella » di città.
L’anno scorso un suo fratello, più giovane di lui d’alcuni anni, morì in porto in uno sciagurato incidente di scarico.
Me lo disse Pompilio con la sua voce greve, senza emozione:
— Un colpo qui. L’han portato all’ospedale già morto. Era meglio se continuava a fare il picchettino come una volta. Disgrazie...
Pareva che commentasse una sciagura di bordo, un incidente di navigazione.
Ma intanto aveva già detto alla cognata e ai nipoti di venire a stare a casa sua. Già. Bisognava dividere il pane, invece che in sette parti, in dieci parti. Perché c’eran due ragazzi e la donna in più. Disgrazie... Ma quando si deve, si deve...
Adriano Grego.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 03.04.35

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Citazione: Adriano Grego, “Marinaio in ufficio,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2073.