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Titolo: Don Giovanni e l'etèra

Autore: Aldo Palazzeschi

Data: 1931-11-11

Identificatore: 208

Testo: Don Giovanni e l'etèra

Perché la mamma diveniva tanto rigida e più seria all’incontro di quel signore?

Per la mano che mi teneva sentivo il suo braccio indurirsi: e indurirsi insieme vedevo la sua faccia, e gli occhi guardare fisso in avanti seguitando a camminare tutta d’un pezzo come un automa.

Sentivo lei così, e guardavo lui com’era.

Un signore di mezzo secolo forse, forse abbondante, abbastanza alto e discretamente pingue. Portava dei pantaloni a quadrettini bianchi e neri, e le scarpe di coppale colle ghette candide, candide come il panciotto di picchè sul quale pendevano i festoni di una grossa catena d’oro che aveva in mezzo un ciondolo blu; la cravatta di raso a grande piastra coi fiorellini e il ferro di cavallo in brillanti e zaffiri; il tight, la mezza bomba opaca, nell’inverno il paltò color tortora, i guanti paglierini immancabilmente e un bastone il cui pomo di avorio raffigurava un cane. Sulle guance rosee e vellutate, che rivelavano una lunghissima cura, colme e un pochino pencolanti, i baffi di zucchero filato, e di indefinibile colore, arricciavano le punte lucide per infilzare come frutti canditi gli occhi cerulei e dolci, vissuti, e contornati da una melma di rughettine che nel vapor di un sorriso più dolce ancora dello sguardo, parevano liquefarsi dentro due borse. E un’altra cosa sempre uguale su cui s’era fissata la mia attenzione: all’occhiello del tight, o a quello del paltò, una camelia rosa simile molto al carname delle guance, ché l’artifizio riusciva a dare il tono molliccio e caldo del neonato a quelle vecchie fibre.

Sempre uguale così: morbido e dolce; e, come vi ho detto già, mi faceva diventare sempre uguale la madre: diritta e dura, tutta d’un pezzo.

Perché la mamma diveniva tanto rigida e più seria?

Le due cose non potevano passare inosservate al fanciullo curioso e attento.

S’incontrava tutti i giorni verso sera, presso a poco per la medesima strada, sullo stesso marciapiede; e più che camminare dondolava, girava e molleggiava sui piedi giuocando col bastone e sporgendo il corpo in movimenti che facevano pensare alla gondola e al tacchino insieme, in quel gongolamento che pareva accentrare la felicità circostante per quelle due o tre strade solite del passeggio sulla fine del giorno o nella prima ora della notte.

Finché una volta, dopo lungo avvertire questo fenomeno, costretti dall’angustia del luogo e per il passaggio di una carrozza a rasentarlo, trovatomi a lui sotto: « Che bel fiore! — gli dissi accennando la camelia rosa. — Signore, me lo dà? ».

Non vidi più né il fiore né il signore, e neppure la strada, che ogni cosa ballava e mulinava intorno a me.

Mi ero preso un tale ceffone, cosi difficile a descrivere quanto a dimenticare. E mentre la mamma mi tirava cattiva, ed i miei occhi riprendevano più ferma visione del mondo, quello le si inchinava dietro tutto proteso e sorridente, e le diceva: « Cara, cara, brava mammina, ha fatto bene, sì, brava, così bella, cabina! ».

Figlio d’un cane! Anche lui mi dava addosso dopo che gli avevo fornito il pretesto per parlare a mia madre scaricandosi a quel modo della sua ammirazione, dicendo ad alta voce quelle espressioni gentili che fino a quel momento aveva potuto dire solamente cogli occhi o a fior di labbro: «Bene, brava, bella mammina, brava, carina, sì... ».

Da quella volta però, all’incontro di quel signore la mamma si faceva meno rigida, né luì guardava più insistentemente e colla medesima tensione. Col piccolo incidente si era chiusa la partita, allorché io imparai praticamente che quell’uomo tutto roseo e dolce non si doveva guardare, né, tanto meno, chiedergli un fiore.

***

E non è questo il solo ceffone ch’io mi presi sugli albori della vita, per il mio precoce interesse, non dirò simpatia. verso i peccatori della carne.

Nel parlare che mia madre faceva, in famiglia o colle amiche, m’aveva colpito una frase ripetuta sovente, e della quale mi domandavo un significato recondito non potendomi contentare di quello primo che m’appariva: « Una donna sola ». Una donna sola era a quel tempo, milleottocentonovanta circa, la posizione più insostenibile, più acrobatica, più assurda che potesse capitare a una creatura di sesso femminile che non intendesse abdicare alla propria dignità.

Che cosa poteva fare una donna sola? Nulla, letteralmente nulla, andarsi ad affogare. La domenica e nei giorni di festa non le era ammesso di circolare per le strade, né entrare in un locale pubblico; e in quelli di lavoro doveva filare in gamba e contenersi con maggiore abilità che un’equilibrista sul filo e coll'ombrellino giapponese; ed essere a casa prima dell’imbrunire. Di notte poi una donna sola poteva correre soltanto per chiamare il prete, nemmeno il dottore o la levatrice.

Così dicendo mia madre guardava me, e m’indicava all’interlocutrice con un sorriso pieno di compiacimento, quasi chiedendo ammirazione e consenso per quello che io rappresentavo, per il mio valore indiscutibile; e quella subito si sentiva in dovere di carezzarmi e occuparsi di me che salvavo una situazione tanto difficile in così tenera età; giacché a quei tempi di poca naturalezza bastava un bambino a dare a una signora, per le vie cittadine, un contegno che le permettesse di circolare rispettata onorevolmente, se pure con grandissima misura. Infatti, fino all’età di otto o nove anni, fui tenuto per la mano, alla destra di mia madre come un cagnolino alla catena, ciò che mi faceva covare in fondo all’anima desideri di evasione, e mi fa domandare anche oggi per quale miracolo il mio braccio sinistro non sia più lungo del suo fratello un pochino.

Le donne che giravano sole a quei tempi erano le straniere, che godevano libertà illimitata per essere di un altro paese, e generalmente più avanzato in fatto di vita sociale; tutti le conoscevano a colpo nè si curavan di quelle; le donne del popolo dalle quali per loro immensa fortuna non si esigevano tante calie, né ci ambivano esse; e le cocottes, e si riconoscevano a colpo anche queste. Tre categorie separate e bene distinte avendo ognuna un suo modo di fare e di vestire, i suoi caratteri speciali riconosciuti generalmente. Le ultime giravano sole perché nessuno si sarebbe accompagnato con esse, da quelle che marciavano in pariglia come grandi dame, a quelle che battevano i tacchi sul marciapiede, infioccate soverchiamente, agitando pennacchi come insegne e che parevano portare a spasso tutto il disordine e le vergogne della società.

Erano tanto diverse dalle altre donne che nemmeno il campagnolo più inesperto avrebbe potuto prenderle per signore, e neppure per popolane, che alle donne del popolo molte licenze erano permesse e magari volgarità pur rimanendo nel rango delle donne per bene. E anche il fanciullo attento non poteva tardare a identificarle come donne differenti da tutte.

Una di quelle più specialmente aveva ferito da tempo la mia curiosità. Camminava spavalda e spampanona, guardando impudente quel mondo che fingeva ignorare la sua esistenza, il suo volume e i suoi colori che accentuava per accrescere il proprio dissidio di fronte ad esso che respingendola la eccitava a tener posto per due. Si fermava e si voltava senza riguardo, sventolando fiocchi e piume. L’uomo il più spregiudicato che avesse dovuto parlarle per un affare urgente si sarebbe recato con lei in uno di quei vicoletti oscuri ch’erano i paraventi del pudore.

Una volta, passandole vicino dopo tanto osservarla, dissi indicandola a mia madre per avere piena conferma della mia sagacità: « Guarda, guarda mamma, ecco una donna sola ».

La donna, colpita dal mio gesto ma non avendo afferrato le parole, si rivolse accigliata e minacciosa verso mia madre quasi per domandarle ragione di essere segnata a dito da me; felice di attaccar baruffa con una signora, che certe donne non chiedevan di meglio capitasse loro un appiglio per vendicarsi colle borghesi dell’amaro giudizio che la società borghese faceva pesare sul loro capo, e sfogare le loro ire e la loro volgarità. Fortunatamente però, non avendo afferrato le parole, si contentò di lasciarci passare guardandoci minacciosamente come volendo dire: « sarà per un’altra volta ».

Mia madre le strisciò davanti divenuta un’ombra, un fantasma; sentii al mio fianco il suo corpo vuotarsi, cambiare stato, divenir sale o ghiaccio, non so, o meglio ancora un vapore; tanto leggera era divenuta mia madre questa volta. Fenomeno che non mi piaceva punto per quanto non accennasse ad esprimere il suo rammarico verso di me. Poteva sembrare un orologio guasto, e mi domandavo la conclusione di quella mia domanda rimasta senza risposta, ma non era invece che una sveglia carica. Appena entrati nel portone di casa, ché l’incidente era avvenuto poco lontano dalla nostra abitazione, si scaricò sulla mia faccia.

Presi gli scapaccioni, ma non mi ero sbagliato però.

Compresi che anche quella non si doveva guardare: e due. Compresi che la mia curiosità doveva essere punita, e che una donna sola per le strade doveva essere la più immonda di tutte le creature.

***

Ma non valsero i ceffoni di mia madre a farvi odiare da me, povero Don Giovanni da marciapiede, povera etèra da poche lire, poveri peccatori della carne.

Ed ora che la carne vostra non è più che polvere, quarant'anni sono passati, o risorta per scontare la pena delle gioie terrene? Se si possa dare per una ragione tanto piccina un fatto cosi grande, ricordo come carezze le ceffate colle quali per il vostro peccato la mia tenera carne venne mortificata precocemente.

Aldo Palazzeschi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 11.11.31

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Citazione: Aldo Palazzeschi, “Don Giovanni e l'etèra,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/208.