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Titolo: Ricordando il Maestro

Autore: Vittorio Cian

Data: 1935-04-10

Identificatore: 1935_173

Testo: Omaggio a Giosuè Carducci nell’anno del Centenario
Ricordando il Maestro
C’è da scommettere che in questi giorni di celebrazioni carducciane che si susseguono in tutta la penisola, per volere del Duce, intese, come scrive ora Luigi Federzoni, « a rivendicare giustamente contro le baldanzose ingratitudini delle critiche intellettualistiche la gloria del Carducci », più d’uno si sentirà tentato d’esclamare compassionando: « Povero Carducci, in quante salse cucinato! ». Ma non bisogna esagerare. Che, se in queste manifestazioni, come in ogni medaglia, come in ogni cosa umana, c’è un rovescio, c’è anche il diritto. E infatti un’occasione come questa, eccezionale, il centenario di un uomo eccezionale per le sue benemerenze verso la patria, quale cittadino e poeta e scrittore e maestro, è anche un mezzo quanto mai efficace di fare, non solo una buona propaganda culturale, ma anche una specie di referendum, suscitando quasi un gran coro di voci italiane, che, quando sieno schiette e sincere e s’accompagnino con serietà e adeguata preparazione spirituale, possono offrire utili documenti di pensiero alla storia delle tendenze critiche e del gusto, dello stato d’animo e della cultura d’un popolo in un dato momento.
Il primo saggio della pubblica opinione letterata sul Carducci, dopo quello seguito immediatamente alla sua morte — che, più che un giudizio sereno, fu una esplosione del sentimento degli Italiani ferito come da una sventura domestica — lo si ebbe quattro anni più tardi, nel 1911, allorquando Alberto Lumbroso pensò di tastare il polso agli studiosi invitandone buon numero a collaborare per la nota Miscellanea carducciana. Oggi, in un quotidiano torinese, piace ricordare che fra quei collaboratori figurano due insigni maestri del nostro Ateneo, Arturo Graf e Rodolfo Renier. Il primo rispose all’appello del Lumbroso con una paginetta fra caustica ed arguta, ma improntata del suo caratteristico pessimismo: « Avviene — scriveva — per il Carducci ciò che doveva avvenire ed era facile prevedere. A una gonfiatura, eccessiva tien dietro una eccessiva sgonfiatura. Prima gli fecero troppo credito: ora vogliono farlo fallire. Ricordarsi la piccola storia dei montoni di Panurge, immagine compendiosa ma eterna della grande storia umana ». Una storiella, aggiungo io, che il Rabelais aveva imparato dal nostro Folengo.
Ma non va dimenticato a proposito del Graf e del Carducci, che il maestro torinese, pochi giorni dopo la morte di quest’ultimo, e precisamente pel 26 febbraio 1907, doveva commemorarlo nell’Aula Magna dell’Università, su invito degli studenti. Sennonché, causa l’infelice organizzazione della cerimonia e le clamorose proteste della ondata giovanile impedita di entrare nella sala già quasi tutta occupata dagli invitati, la commemorazione non si poté tenere, né in quel giorno, né in seguito, nonostante le insistenze degli studenti, tanto il Graf era rimasto offeso di quell’ incidente malaugurato. E il rammarico di questo riuscì ancor più vivo il giorno che fra le sue carte fu ritrovata la traccia preparata da lui per l’occasione, germe d’uno di quei saggi di eloquenza alta e serena nella quale era veramente maestro impareggiabile.
Dal suo canto, il Renier, fino dal 1907, dedicando alla memoria di Enotrio Romano un notevole necrologio nel suo Giornale storico della letteratura italiana, aveva scritto che con la morte del Carducci l’Italia sapeva d’avere perduto «una figura eminentemente rappresentativa, una tempra eletta di uomo geniale, di artista vero ed ispirato, un grande critico, un grande maestro... Il giudizio della storia, quando potrà essere serenamente pronunciato, ne accrescerà, anziché diminuirne, il valore ».
E in questo il Renier fu profeta.
* * *
Per avere un’idea della portata e del significato addirittura essenziali e decisivi, che, insieme con l’opera dello scrittore e del maestro, ha la poesia del Carducci nel quadro della nostra storia letteraria e quindi della vita italiana nell’ultimo Ottocento, immaginate, per un istante, che cosa sarebbe stata e sarebbe questa storia, quale vuoto, quale frattura o soluzione di continuità noi avremmo in essa, se nella povera casa di Val di Castello, cent’anni sono — e precisamente il 27 luglio 1835 — non avesse veduto la luce il piccolo Giosuè. Certo, non riusciremmo a spiegarci, fra l’altro, né il D’Annunzio, né il Pascoli.
Ora, pel D’Annunzio, mi giunge, fresco fresco, a rincalzare e documentare, se pur ce ne fosse bisogno, questo mio giudizio, un volume quanto mai interessante e vivo di Giuseppe Fatini, Il Cigno e la Cicogna, che rivela nell’autóre suo lo stesso ardore d’indagine e lo spirito penetrante che gli permisero, ventun anno fa, di dare agli studiosi quell’altro volume su La prima giovinezza di Giosuè Carducci, che rimane fondamentale.
I documenti fatti conoscere dall’attuale Preside del Liceo Cicognini di Prato, confermano che fu proprio il Carducci a mettere indosso, o, meglio, a svegliare il dèmone della poesia nello spirito dell’adolescente abruzzese, allora collegiale appunto nel Cicognini. Bene osserva il Fatini che nel nuovo ritmo carducciano il D’Annunzio senti fremere il canto della nuova poesia d’Italia, « che usciva ormai dalla caliginosa e snervante lirica del decadente romanticismo ». Ma non è inopportuno rammentare che proprio in quegli stessi anni il vecchio Prati, il superstite più famoso del romanticismo, sentiva il bisogno di rinnovarsi, attingendo quasi una seconda giovinezza poetica alle pure linfe del classicismo, con Psiche e con Iside, che sono rispettivamente del 1876 e del 1878.
Non è qui il caso di seguire il D’Annunzio nelle successive mutazioni del suo atteggiamento di fronte al Carducci in corrispondenza con la graduale ma rapida conquista della propria personalità poetica. Giova però ricordare col Fatini che della prima fortissima impressione, vera scossa rivelatrice, esercitata dalla poesia carducciana sul D’Annunzio, questi ha lasciato, più tardi, un documento che è di riconoscenza, ma anche di storia e di vera poesia, nel Saluto al Maestro:
Enotrio, in memoria dell’ora santa che versò d’improvviso il fuoco pugnace de' tuoi spirti su la mia puerizia imbelle, alle lue prime cune io peregrinai santamente.
Quanto poi al Pascoli l’efficacia ch’egli risenti del suo maestro-poeta è ancora più evidente e più largamente documentabile, anche perché si svolse con una continuità che meriterebbe di essere studiata in riguardo agli effetti artistici, profondamente diversi che gliene derivarono in due direzioni e zone fra loro dissimili.
Ma è bello vedere che proprio il Pascoli fu tra i primi a rendere piena giustizia al Carducci, nel 1911, e per l’occasione già ricordata. All’invito rivoltogli egli rispose poche righe, ma tali che bastano a mettere bene in luce un aspetto che forse è il più significativo, l’italianità invitta della poesia carducciana. Mi è gradito dalla tribuna di questo giornale far riudire quelle nobili parole del Pascoli, congiungendo così in un solo ricordo, quasi in un amplesso di amore e di gratitudine, i due gloriosi rappresentanti dell’ultimo Ottocento poetico:
« Riconosco subito come più vicino a noi Colui che pati la passione della Patria, in tutte le vicende di cadute gloriose, di risorgimenti inaspettati, (li immeritate sventure, di indegni scoramenti, di ferite mortali e, in fine « del tuo trionfo, Popolo d’Italia ». Si disputa, credo, oggi, intorno al poeta e maestro della terza Italia. Egli non ne sa nulla; egli ciò non ode. Va tra gli altri beati, assai pago dell’opera sua ».
Vittorio Cian.
1875
Davanti a casa (Bologna, 1903).

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 10.04.35

Citazione: Vittorio Cian, “Ricordando il Maestro,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2082.