Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Niente da fare

Autore: Elio Talarico

Data: 1935-04-24

Identificatore: 1935_185

Testo: Niente da fare
Ritornavamo da una stanca passeggiata in campagna, Giovanna ed io, muti, delusi, intristiti, verso l’ora del tramonto: e la campagna ci aveva imbevuto di desolazione.
Sempre così: uno squallore, un vuoto, una mancanza.
Incupiva a poco a poco: e la luce del giorno, come suole, s'era tutta rifugiata negli occhi belli della mia donna.
— Le macchine...
— Ma smettila, te ne prego.
Ci riprese l’irritazione sorda e ostile di qualche attimo avanti, quando eravamo curvi ad ammirare un campo grigio e scolorato, sotto il cielo come sporco e gelido.
— Vedi, — aveva detto Giovanna
— la campagna è già guasta dai motori che la solcano, dall’odore di nafta, dal senso di città che le arriva sul vento, insensibilmente, minacciosamente.
Un autotreno carico, massiccio e veloce mi troncò con il suo fragore l’aspra risposta spontanea.
— Che polvere, Dio mio!
Le siepi infarinate, ai fianchi, s’andavano disseccando ed erano tramortite dal freddo: gli alberi, nudi, scheletrici, scorticati fino alla cima, parevano anch’essi strani e desiderosi di nuovo.
— Noi siamo abituati — continuavo — a un primitivismo artificiale e delizioso: bisogna ancora contaminare la campagna, vedi, e munirla d’ordigni, di macchine, di suoni innaturali: solamente così potremo crearci una nostra verginità pura e reale.
Rimanemmo assorti lungo tempo: da ogni poro della terra, adesso, si sprigionava l’adesione muta e riconoscente al mio sincero stato d’animo.
— Tu saresti felice — disse Giovanna — il giorno in cui giorno e notte, estate e inverno, fossero controllati e guidati dalla cellula fotoelettrica. Falso, falso, falso in ogni tuo atteggiamento!
E alzava la voce, urlava quasi, scomposta — lei, così trepida e incantata — decisa a dirmi chiaramente la sua disapprovazione, il suo infinito sdegno.
Vivemmo per qualche minuto la più autentica scena di ipocrisia della nostra vita.
— E tu non mi ami, già: e non mi sai capire: e fra di noi c’è un abisso: questo tuo positivismo, queste tue pose d’uomo moderno, questo voler — per forza — sentire in modo nuovo: e io sono coerente, e vorrei che anche tu lo fossi, ma ti allontani, ogni giorno di più, ogni secondo di più... e vorrei dirti, ancora...
Niente, niente: non disse più niente, sembrava che a un tratto le sue labbra fossero serrate contro voglia, poi scoppiò a piangere — vi assicuro — proprio come una bambina.
— Giovanna, Vanna, Vanna!
Correva, incespicando, a zig-zag per la strada scoscesa e puntuta, rabbiosamente, forsennatamente, verso il tram provinciale abbandonato, quasi, sopra la rotaia erbosa del piazzale paesano (il tram dall’odore cattivo di sigarette popolari); e non voleva che la seguissi.
— No, ti scongiuro, lasciami, lasciami, ti odio — e si afflosciò sopra i cuscini macchiati della prima classe, mormorando la sua esclamazione abituale: — Cruzifix!
(A Vienna — le avevo detto mille volte — amano meglio sospirare: « Oh, Jèmine! ». « Jèmine?! ». « Contrazione, forse, da Jesus Domine ». Ridicolo professore, incantevole allieva).
* * *
Lo scrittore non può mai sentirsi completamente solo e la sua camera non è davvéro come tutte le altre camere di qualunque persona: né, d’altronde, lo scrittore è un uomo che vive, soltanto, per vivere: egli diventa, a poco a poco, il cronista della propria esistenza, romanzo d’appendice che « continua » fino al giorno della morte, senza scampo, senza pietà.
— Oh, Jèmine!
Chiudo a chiave la porta dello studio. — Che nessuno entri, in nome di Dio! — Mi scaravento sopra una poltrona.
— Buona sera.
Pirandello ha ragione, senza dubbio, come aveva ragione — prima di lui — quello spirito inquieto d’Andreieff.
— E che cosa farai, ora?
Niente, niente, niente da fare: e non c’è possibilità d’evasione, sono tutti qui, accanto a me, curvi sopra di me — impassibili, inflessibili, incorruttibili — tutti i personaggi venutimi a trovare in questi ultimi tempi.
— Deciditi, insomma.
C’è quel signore di « Piano inclinato » che schiaffeggiò la moglie quando s’accorse che tutto, con lei, stava per finire: c’è quell’altra — la donna dai capelli rossi di « Via dell’Arancio » — che non sa adattarsi all’idea della mia indifferenza.
— Io, capisci? Io che sto scontando la galera per il mio amore sventurato.
Mi alzo, vado alla finestra, la spalanco: il giovanotto in grigio tenero tossisce violentemente, mi guarda implorando.
— Non ricorda? — È timido, educato, circospetto — Divenni tubercoloso in seguito al mio dramma d’amore per Irene, quando lei, la mia donna, mi disse.: « È inutile, inutile, non ci prendiamo; meglio troncare adesso »; scusi: la ringrazio.
Chiudo la finestra, ancora una volta, con violenza: mi rifugio alla scrivania, come dietro una barricata, nel cassetto di centro c’è una rivoltella; ma i fantasmi non hanno paura.
In carcere la donna dai capelli rossi ha imparato ad essere tenera, affettuosa, persuasiva: si avvicina, siede sul bracciolo della mia poltrona, mi accarezza la fronte che scotta, dice — piano piano — accosto al mio orecchio, perché gli altri non sentano:
« Come farai, adesso? La tua àncora — non dicevi così? la tua salvezza spirituale — t’era entrata nel sangue, Giovanna: non puoi più vivere senza di lei. Pensaci. Quando stanco, sfiduciato, mormorerai ancora una volta: « Oh, Jèmine! », chi ti risponderà graziosamente, storpiando appena la difficile pronuncia: Cruzifix? Chi? ».
Accendo una sigaretta, guardo l’ora, squilla il telefono: nel medesimo istante i miei compagni sono pietrificati e poi dileguano, polvere di gesso, idiota ossessione: stacco il ricevitore, potrebbe essere la mia donna...
— Deciditi, su: agisci.
* * *
Questo mestieraccio, Dio mio!
Sempre una cartella pronta, bianca, lucida, sulla quale incomincio a scrivere, indolentemente:
Ritornavamo da una stanca passeggiata in campagna, Giovanna ed io...
Elio Talarico.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 24.04.35

Etichette:

Citazione: Elio Talarico, “Niente da fare,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 15 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2094.