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Titolo: Ugo Ferrandi e la difesa di Lugh

Autore: Lorenzo Gigli

Data: 1935-05-01

Identificatore: 1935_196

Testo: LETTERATURA COLONIALE ITALIANA
Ugo Ferrandi e la difesa di Lugh
Pionieri e precursori - Prime esplorazioni del Giuba - La bandiera italiana a Bardera - L’anno di Adua - L’epica vittoria di Lugh: cento contro mille - Pace romana in Africa
In un'ansa della riva sinistra del Giuba, a 450 chilometri a nord di Chisimaio, un villaggio di capanne semisferiche e cilindriche ospita una popolazione di 3500 abitanti, in gran parte mussulmani. È Lugh, centro importante della Somalia italiana, sede di residenza, con ufficio postale, stazione radiotelegraflca, un forte. Alla difesa di questo forte è legato il nome dell'esploratore novarese Ugo Ferrandi, che onorò in Africa la bandiera italiana nel modo che diremo e che è passato alla storia: dal 1932, intanto, Lugh ha mutato il suo nome in quello di Lugh-Ferrandi; ed è elementare giustizia.
A Lugh-Ferrandi il villaggio nell’ansa è dominato da una specie di terrazzo dove sorgono le costruzioni europee e le tombe dei capitani Molinari e Bongiovanni uccisi il 15 dicembre 1907 da bande abissine. Perchè il controllo di Lugh ha sempre fatto gola alle tribù viciniori: è un nodo nel quale si concentrano i prodotti del paese degli Arussi, unito da. una camionabile di 420 chilometri a Mogadiscio e da altre camionabili a Digleie e a Uddur, mentre numerose carovaniere l'allacciano alla costa e all’interno. Anche Lugh ha un passato: la fondarono, pare, gli arabi nel secolo XVI. Ma fino al 1893 nessun europeo v’aveva posto piede. Vi giunse il 15 marzo di quell’anno un distaccamento della prima spedizione Bottego comandato dal capitano Grixoni. Lugh era allora un sultanato ereditario indipendente: la colonizzazione della Somalia, incominciata nel 1889, era ancora ai primi passi e si limitava al prolettorato su alcuni sultanati della costa. A Lugh, s’è detto, nessuno prima del Grixoni, era mai arrivato. Vi giunse secondo il marchese Ruspoli; e, nel luglio dello stesso anno, anche il Bottego. Egli vi trovò due bianchi della spedizione Ruspoli, ospitati dal Sultano perchè infermi, ma tenuti in condizione di prigionieri. Il Bottego li liberò, e dopo aver stabilito cordiali relazioni col vecchio Sultano se ne partì verso il mare.
Anche l’itinerario della seconda spedizione Bottego (1895), tragicamente conclusa, passa da Lugh. Fino a Lugh appunto fu compagno al Bottego il capitano Ferrandi, che aveva avuto l’incarico di fondarvi un posto commerciale italiano e di presidiarlo. Il Ferrandi si fermò a Lugh con quarantacinque ascari: avrebbe difeso il posto contro le frequenti incursioni degli Ahmara, che anche di recente avevano saccheggiato il villaggio; in cambio il Sultano s’impegnava a prestargli aiuto nella costruzione d’un forte e di altre opere militari. La carovana di Bottego sostò a Lugh gualche tempo; poi, preso congedo dal Ferrandi, il grande capo mosse, dopo Natale, verso il suo eroico destino.
* * *
Nel libro di « memorie, e note » dedicate a Lugh (edito dalla Società Geografica Italiana nel 1903) il Ferrandi così descrive il villaggio quale gli apparve la prima volta, deserto e saccheggiato.
« Le porte delle capanne aperte o divette mostravano l’interno nudo per il recente saccheggio; una vecchia, schiava, unica, creatura vivente, male coperta di cenci in brandelli, cercava non so che in un mucchio di sozzure: s'arrestò a guardarci, senza paura, con lo sguardo apatico del bruto. Tutto ciò rappresentava Lugh, la fastosa città della leggenda somala ».
E qui Ferrandi rimaneva, fedele alla consegna, coi suoi quarantacinque compagni. In un punto sconosciuto dell'Africa orientale, lontano parecchie centinaia di chilometri dalla costa, questo italiano di buona tempra s’apprestava a scrivere una pagina epica nella storia dell’esplorazione e della colonizzazione africana, che va ricordata ai giovani d’oggi. Il Ferrandi, soldato del dovere, è morto pochi anni fa (1928) nella sua Novara. V’era nato nel 1852 da famiglia di patrioti. Mozzo, marinaio, capitano di lungo corso, navigò per oltre quindici anni i mari del mondo. Poi lo prese il fascino dell’Africa. Fu prima, agente della Casa Bienenfeld, compagno, nel 1885, in una breve esplorazione del, paese dei Danackili, al torinese Augusto Franzoi (un altro pioniere, ancora scarsamente conosciuto, sul quale torneremo); in seguito corrispondente di giornali in Eritrea durante la spedizione San Marzano, e, dopo il maggio del 1888, al servizio della Società per l’esplorazione commerciale dell’Africa, che aveva, a capo a Milano Manfredo Camperio.
I risultati di tre fortunati viaggi nell'Harrar misero singolarmente in vista, presso la Società, le doti del Ferrandi, uomo al quale si sarebbe potuto affidare ormai qualunque missione. La giovanile vita marinara l’aveva abituato alla calma di fronte alle più forti emozioni. Di sè egli diceva, accompagnando una sua relazione, di non essere « nè un viaggiatore scientifico, nè letterario, nè commerciante nella stretta parola »; e forse invece era le tre cose insieme, o per lo meno univa al retto discernimento nel, raccogliere le notizie scientifiche più interessanti una profonda conoscenza dei paesi e dei costumi, una esatta valutazione delle possibilità economiche, una realistica visione delle condizioni presenti, e insieme il gusto dello scrivere semplice, piano, signorile, con molta sostanza di cose e di pensieri esposti in uno stile di diario, dove ogni tanto la poesia della solitudine affiora.
Le ricognizioni del Ferrandi nell'Harrar restarono malauguratamente senza frutto. Se ne impadronì Menelik, e l’Italia ne rimase esclusa. Furono tenuti lontani dalla forza delle cose i coloni di Roma per dar posto agli abissini « non fatti per colonizzare ». Caduto il sogno dell'Harrar, la Società milanese dà, nel 1891, al Ferrandi l’incarico d’una esplorazione del Giuba ch'egli compie col consueto ardimento, aprendo il cammino alle spedizioni che verranno dopo. Sette infatti ne vede il 1893, delle quali quattro straniere. Le tre italiane sono le già citate del Ferrandi, di Bottego-Grixoni e del marchese Ruspoli. Il Ferrandi prepara a Brava la carovana; poi va, verso la valle del Giuba. Dopo tre mesi è sotto le mura di Bardera, la misteriosa « città santa » della leggenda somala. Uno degli obiettivi fondamentali della spedizione è raggiunto, è aperta la via della costa, come il Ferrandi aveva preveduto:
« Intanto la zona tra Brava e Bardera, se l’Italia vuole, sarebbe cosa nostra con nessun sacrificio. La prova di ciò la vedo nel rispetto verso gl’italiani e verso di me. Un po’ di buon volere e di fiducia e la vittoria sarebbe completa ». A Bardera il Sultano Abdio, avverso da prima ai bianchi perchè una predizione gli minacciava morte fulminea alla vista d’un europeo, si piegò davanti al coraggio e all’umanità del Ferrandi e gli divenne amico: e il Ferrandi, partendo, gli lasciò in consegna una bandiera tricolore.
* * *
Seguirono anni densi di lavoro svolto dal Ferrandi al servizio della Compagnia Filonardi, alla quale il Governo italiano aveva ceduto la concessione, avuta dal Sultano di Zanzibar, dell’amministrazione dei porti e territori sulla costa del Benadir. Sbarcata nel 1895 a Brava la seconda spedizione Bottego, promossa dalla Società Geografica, il Ferrandi, come abbiamo già detto, aveva accettato di farne parte con l’incarico di reggere la stazione di Lugh.
Rimasto dunque a Lugh, dopo la partenza di Bottego, solo con pochi ascari, il Ferrandi iniziò la sua opera diretta ad assicurare il villaggio contro le incursioni degli Ahmara, a proteggere la popolazione e a favorirne lo sviluppo e a condurre una lotta tenace contro lo schiavismo.
Qui cominciano i giorni epici di Ferrandi. Siamo al 1896, l’anno di Amba Alagi, di Macallè, di Abba Carima, L’anno di Adua.
Il Ferrandi, solo bianco nella sterminata regione del Giuba, quando riceve le prime notizie dei rovesci italiani, non lascia trapelare nulla e aspetta. La speranza non gli par morta. Ma presto anche le ultime illusioni cadono. E l’ardito esploratore è costretto a riconoscere che per gl’italiani, che in Africa erano in concetto di forti tra i forti, d’invincibili, « tutto svaniva come un sogno avanti alla triste realtà della sconfitta ». Nota ancora: « Nella mia vita randagia e burrascosa, ebbi spesso emozioni dolorose; ma rare volte n'ebbi una che uguagliasse ciò che provai alla notizia di Abba Carima. Però dovevo nascondere in me il lutto che la triste novella mi cagionava e dovevo mentire coi miei ascari che mi spiavano in viso alla lettura delle notizie. Per parecchi mesi ancora Lugh ignorò le sciagure nostre ».
Poi non fu più possibile tacere. Il Ferrandi tentò ancora di sollevare il nostro prestigio e approfittò della ricorrenza del XX Settembre per adunare i capi e tenere un discorso nella loro lingua, ma ormai le voci della vittoria abissina si diffondevano fra gli indigeni ingigantite dal timore di possibili nuove incursioni degli Ahmara e degli Arussi contro le tribù del piano che avevano accettato il protettorato italiano. Di questo protettorato il Ferrandi era custode e difensore: in qualsiasi evenienza egli avrebbe mostrato agii abitanti di Lugh che l'impegno assunto dall'Italia era sacro. Così si preparò ad arginare la discesa ahmarica. Il 10 novembre le orde abissine sono a una giornata da Lugh, e il Ferrandi non ha da opporre che i suoi quaranta ascari e una sessantina di giovani lughiani. che hanno risposto ai suoi appelli. La popolazione terrorizzata si dà alla fuga, il Sultano scompare. Resta solo in Lugh il Ferrandi coi suoi uomini. Gli abissini, imbaldanziti intimano lo sgombero; ma poi, per un altro mese, desistono da ogni attacco contro il villaggio per razziare la regione a sud. Ricompaiono alle porte di Lugh verso Natale, e i capi e la popolazione, ch’erano frattanto ritornati, abbandonano un’altra volta il villaggio per rifugiarsi oltre il fiume. Resta con Ferrandi un giovinetto quindicenne, l’ultimo figlio del Sultano, il quale grida sdegnato alle spalle de' suoi che fuggono: — Non avete vergogna di lasciare il paese dove siete nati, mentre uno straniero lo difende contro il nemico?
Il Ferrandi cerca intanto di condurre trattative con gli abissini per persuaderli a ritornare verso il nord. « È stata conclusa — dice — la pace tra il Re d’Italia e il Negus, perciò gli abissini devono cessare le razzie nei territori soggetti all’Italia e devono restituire gli ostaggi ». «Noi non sappiamo di patti — risponde un ras. — Il paese è abissino. Voi dovete sgombrare ».
Non resta che ricorrere alle armi. E Ugo Ferrandi rientra in Lugh deciso a resistere sino all’estremo. In questi frangenti gli giunge la notizia dell'eccidio di Lafolè, quattordici morti, tra cui il Cecchi: « Questa nuova sventura mi colpiva in pieno petto: Cecchi, Quirighetti, ai quali tanti anni di amicizia mi legavano; tanti prodi così barbaramente trucidati a pochi ore dalla costa! Mi pareva cosa da non credersi; mi pareva di sognare; e con tal lutto nell'anima, dovevo sostenere la lotta contro l'abissino. Triste giorno! ».
Ma è, per Ugo Ferrandi, giorno di vittoria. Respinti gli attacchi del 23, spunta la vigilia di Natale sotto il segno d'altra imminente offensiva. La quale si sferra violentissima su due punti. Più di mille gli assalitori, meno di cento i difensori. Eppure gli Ahmara e gli Arussi uniti non riuscirono ad aver ragione di quel pugno di uomini guidati da un capo eroico. I nemici non poterono contare sulla sorpresa, non ebbero l’ardimento di passare a guado il fiume, condussero attacchi disordinati, e al finir della giornata si ritirarono. La mattina di Natale, dall’alto del fortino, Ugo Ferrandi vide le schiere dei vinti tornarsene lentamente verso nord. Lugh era salva. Sul forte risalì il tricolore. Lo salutarono, levando alti i fucili, gli ascari vittoriosi; lo salutò con le lagrime negli occhi il capo che, nell’anno di Adua, aveva così ben tutelato in quel lembo d'Africa il prestigio del nome italiano.
L'importanza, della difesa di Lugh e di tutta l'azione del Ferrandi ai fini della estensione e del rassodamento dell’ influenza italiana in Somalia è grandissima. Non si esagera affermando, come ha fatto Giuseppe Lampugnani in una affettuosa e documentata « memoria » nel Bollettino storico per la Provincia di Novara (anno XXIII), che una vittoria scioana contro il baluardo di Lugh avrebbe potuto travolgere in un giorno tutta la somma di lavoro italiano nella lontana regione dell’Oceano Indiano.
La gesta leggendaria di Ugo Ferrandi merita il canto dei poeti; ed è entrata nella letteratura narrativa, per merito d’un giovane scrittore toscano, Riccardo Marchi, del cui, romanzo La sperduta di Lugh abbiamo detto nei precedenti articoli.
Il 2 aprile 1897, compiuta la sua missione, Ugo Ferrandi ritornava alla costa. Il capitolo della sua gloriosa avventura lo chiude egli stesso con queste mirabilmente semplici parole: «... m’allontanavo non senza un intimo rincrescimento, ma confortato dalla coscienza del dovere compiuto. In quindici mesi all’anarchia era stato sostituito l’impero della giustizia; un vasto territorio, prima assai malsicuro, era oggi tranquillo; e tra gli indigeni, agli odi tradizionali e feroci, s’er'a sostituita la pace, sì che in tutta la lunga dimora non ebbi a lamentare un solo fatto di sangue. Avevo difeso il paese contro il nemico, e, non usando mai violenza, avevo governato accontentando ».
Così Ugo Ferrandi parlava di sè. Nello stile con cui operava. La sua vita fu. tutta un esempio. L’Africa, dopo la gesta epica, lo rivide ancora, prima in Eritrea, poi di nuovo a Lugh come residente e nel 1913 governatore della Somalia settentrionale. Il suo monumento, che il Lampugnani auspicava nella citata «memoria», l'ha avuto: è Lugh-Ferrandi, il nome dell’esploratore e difensore associato al nome della terra africana sulla quale egli, con cento uomini, fece sventolare il tricolore dietro le orde abissine in fuga.
Lorenzo Gigli.
Il capitano Ugo Ferrandi.
Abdio, il Sultano di Bardera, amico di Ferrandi e degli italiani.
Il fiume Giuba presso Lugh.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 01.05.35

Citazione: Lorenzo Gigli, “Ugo Ferrandi e la difesa di Lugh,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2105.