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Titolo: L’albo d’oro d’una generazione

Autore: Lorenzo Gigli

Data: 1935-05-22

Identificatore: 1935_221

Testo: Gli scrittori italiani e la guerra
L’albo d’oro d’una generazione
Il "ruolino" degli scrittori caduti sul campo - Il testamento spirituale di Renato Serra - Olocausto degl'irredenti - Come morì un poeta
Il contributo di sangue dato alla guerra italiana dalla generazione letteraria del primo quarto di secolo è grandissimo per valore personale di uomini e per virtù d’esempio. Il glorioso ruolino si compone di nomi tra i più chiari delle nostre lettere, alcuni già illustri, altri affermati come sicure promesse di domani. Vi sono, tra codesti scrittori caduti sul campo, parecchie medaglie d’oro, molti decorati d'altre ricompense al valore, molti volontari. Qualche anno fa, raccogliendo in una antologia gli scritti di ventisei morti, Cesare Padovani poteva giustamente scrivere ch’essi avevano pagato per tutti e fatto testimonianza per tutti: « quel che s’è detto d’un popolo per i suoi cinquecentomila caduti, va ripetuto di una generazione letteraria per questo manipolo di eroi ». Alcuni continuano in purezza d’animo e di stile la tradizione del Risorgimento; altri sono gli epigoni dell'ultima crisi romantica agitata tra il panteismo sensuale di D'Annunzio e il panteismo mistico del Pascoli: tutti cercarono la liberazione del male che li opprimeva con una sincerità e una passione che soltanto nella guerra poteva trovare la sua misura e il suo risolvimento.
Il nostro assoluto
Marcia in testa a tutti il cesenate Renato Serra, cervello d’umanista e sensibilità di figlio del secolo. Aveva capito subito che « c'era un minuto per noi » e non bisognava lasciarlo passare. La sua invocazione della vigilia febbrile è il programma morale d’una generazione: « Hanno detto che l’Italia può riparare, se anche manchi questa occasione che le è data; la potrà ritrovare. Ma noi, come ripareremo? Invecchieremo falliti... eravamo destinati a questo punto, in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano trovare il loro impiego. Questo è il nostro assoluto. È così semplice ». E, ancora nell’Esame di coscienza, l’ultima mirabile pagina pacata: « Laggiù in città si parla ancora forse di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo... Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sorda e vuota quando la guardavo soltanto, ma adesso sento che può essere piena di uomini come son io, stretti dalla mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l’uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perchè: se venga l’ora... Tutto il mio essere è un fremito di speranze, a cui mi abbandono senza più domandare; e so che non son solo... Il presente mi basta; non voglio nè vedere nè vivere al di là di questa ora di passione. Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un minuto dell’attesa, che mi appartiene. Dirai che anche questa è letteratura? E va bene. Non sarò io a negarlo. Perchè dovrei darti un dispiacere? lo sono contento, oggi ».
Il testamento e l’atto di fede della sua generazione, Renato Serra lo scrisse così, preparandosi a testimoniare col sacrificio l’urgenza del superamento della crisi morale che la travagliava. « Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli... ».
Gli irredenti
Venivano da ogni punto della penisola, dalle più opposte direzioni ideali, anziani e giovanissimi, chiari ed oscuri, raccolti tutti sotto la stessa bandiera. Si chiamavano Giosuè Borsi e Gualtiero Castellini, Nino Oxilia e Scipio Slataper, Cesare Battisti e Giulio Bechi, Umberto Boccioni e Vittorio Locchi. Passarono dagli studi, dalla poesia, dall’azione alla trincea. Furono assunti all'eterna luce, alcuni, come il Borsi, tenendo ancora stretto sul cuore un piccolo esemplare del poema di Dante.
Il gruppo degli irredenti è capitanato da Cesare Battisti, i cui scritti geografici politici e letterari, raccolti nel 1923 in edizione nazionale, testimoniano dell’infinito amore e della profonda dottrina con cui il deputato di Trento affrontò i problemi della sua terra, ne rivendicò l'appartenenza integrale alla storia e alla geografia italiana sino allo spartiacque alpino, là dov'erano giunte le aquile di Druso. Accanto a lui ecco il giovinetto triestino Ruggero Timeus Fauro che in un libro ricco di spirito profetico su Trieste trattò il problema adriatico liberandolo dalle sovrastrutture ideologiche dell’irredentismo vecchio stile e prospettandolo nella sua realistica e nuda drammaticità: tra i primi a denunciare i pericoli di quella politica delle nazionalità che l'Italia avrebbe poi scontato con tante delusioni, e a indicare nella marcia degli slavi all'Adriatico il danno di domani.
L’influenza di questi scrittori di confine che proponevano con le opere e con l’esempio l'urgenza dell’azione dell’Italia ad oriente e la necessità della guerra fu importantissima: quando la guerra scoppiò essi furono tra i primi a marciare e parecchi caddero gloriosamente sul campo. Così Scipio Slataper, medaglia d'oro, autore del Mio Carso, un libro che ha un contenuto morale così alto da giustificarne la posizione nel ciclo ideale che rinnovò la cultura italiana, preannunziò il conflitto europeo, spianò la strada ai fanti di Vittorio Veneto per la conquista di Trieste con la quale si chiuse un’epoca e fu sepolto un mondo. Lo Slataper e altri triestini come i fratelli Stuparich avevano aderito, negli anni precedenti la guerra, al movimento fiorentino della Voce: v’erano entrati come in un’atmosfera di battàglia, per ritrovarsi attraverso la polemica e la lotta e preparare le imminenti avventure. V'erano entrati, appunto come lo Slataper, alla ricerca d’uno stile, per devozione alla disciplina della lingua di Dante e di Leopardi. Il contenuto etico dell’azione vociana, la sistematica revisione critica della vita e della cultura nazionale, erano motivi di polarizzazione dell’interesse degli irredenti approdati dalle rive cosmopolite del mar di Trieste a quelle fiorentine dell’Arno onuste di tanta gloria e storia italiana. Uno degli Stuparich, Carlo, il più giovane, doveva poi morire sul campo come lo Slataper. Cadde durante l’invasione austriaca del Trentino, nel maggio 1916: «... rimasti uccisi o feriti quasi tutti i suoi uomini e finite le munizioni, si diede la morte per non cadere vivo nelle mani dell’odiato avversario », dice la motivazione della sua medaglia d’oro. Carlo Stuparich ha lasciato il suo testamento culturale e spirituale in un libretto di duecento pagine, Cose e ombre di uno, pubblicato postumo nei « Quaderni della Voce » (1919); e un’alta testimonianza della sua coscienza virile è nella meditazione che il fratello Giani, fatto poi prigioniero, gli consacrò nei Colloqui con mio fratello.
Appello ideale
Al gruppo degli irredenti appartiene anche Enrico Elia, scrittore e musicista finissimo; morì sul Podgora nei primi mesi della guerra, poco più che venticinquenne, e di lui restano una raccolta di canzoni popolari nordiche, un volume di scritti postumi, una Sonata per piano e flauto oltre a diverse composizioni non finite. Ad una figura come quella di Elia si accompagna ottimamente la figura dell’oriundo ungherese Eugenio Vaina de Pava, di tendenze democratico-cristiane, volontario in Albania nel 1911, professore nel ginnasio di Aosta: ha lasciato due libri politici e parecchi scritti sparsi nei giornali. Meno noti, Elia e Vaina grandeggiano per coscienza morale. La quale rifulge anche nel sacrificio di oscuri come il poeta operaio Giovanni Bellini, fiorentino, il cui Arciviaggio fu pubblicato postumo a cura di Fernando Agnoletti, e il volontario veneto Mario Pichi, autore di bozzetti e novelle; e l’insegnante fiorentino Ugo Ceccarelli, del quale restano un volume di liriche e un romanzo. Ma a questo punto nomi di illustri e di oscuri si confondono, la rassegna è tutta una luce di sacrificio e di gloria. Il giornalista Alberto Caroncini marcia accanto al pittore Umberto Boccioni; due anziani come il colonnello romanziere Giulio Bechi e il nazionalista Vincenzo Picardi, la maggior parte degli scritti del quale è rimasta inedita per volontà da lui espressa, si accompagnano a giovanissimi come i poeti aviatori Rodolfo Fumagalli e Giovanni Costanzi, la cui fama nascente fu tenuta a battesimo da Gabriele d’Annunzio; e intanto vengono al supremo convegno della morte Gualtiero Castellini dal giornalismo e dalla politica, Enzo Petraccone dalla storia e dalla critica d’arte, Vittorio Locchi, Nino Oxilia, Annunzio Cervi e Giosuè Borsi dalla poesia, Ugo Tommei dagli studi letterari, come Leonardo Cambini e Mario Tancredi Bossi: dei quali due ci sono rimasti i bellissimi epistolari di guerra; ma gli epistolari dei caduti italiani sono moltissimi, dalle lettere di Enrico Toti a quelle dei fratelli vercellesi Giuseppe ed Eugenio Garrone e del giovinetto Jacopo Novaro, e qui non sarebbe possibile noverarli tutti. Chiuderemo piuttosto questo appello ideale degli scrittori caduti in guerra col nome di Napoleone Battaglia che perdette la vista ad Oslavia, fu fatto prigioniero e morì a Torino nel 1920 in conseguenza dèlie sue ferite. Ha lasciato un volume autobiografico, Senza luce, nel quale racconta con la serenità dell’artista e del santo la storia del suo martirio. Il cieco brancolante s’abbandona sopra la terra erbosa in una notte di primavera: « Mi piegai e risentii la terra quasi calda di sole, e risentii l’erba ancora tiepida di luce, e una consolazione improvvisa ed oscura mi riaperse il cuore oppresso. E mi sentivo come riprecipitato nella vita da un infinito silènzio di morte ».
Lorenzo Gigli.
Occhi
Che occhi chiari quella sera
e molti non tornarono più:
cera un'aria di primavera
un’aria che non tornerà più.
Fumavamo così per fumare
con delicatezza ed amore, non avevamo voglia di parlare
per paura di far rumore.
—Addio, addio, arrivederci qua —
e ciascuno per la sua via:
tanta dell’anima mia
è rimasta sotterrata là.
Nicola Moscardelli.
Nicola Moscardelli, al quale avevamo chiesto una sua fotografia del tempo della guerra, ci ha risposto:
« Ho avuto il tempo di far la guerra, di guadagnarmi una medaglia ed una grave mutilazione: ma non ho avuto il tempo di farmi nemmeno una fotografia. Vi mando — se può servire al numero speciale del Diorama una poesia che uscì nel 1916 e può dirsi una radiografia istantanea di guerra ».
Scipio Slataper, medaglia d’oro, caduto sul Podgora il 2 dicembre 1915
Nino Oxilia, caduto il 18 novembre 1917 sul Monte Tomba.
Una pagina del taccuino di guerra di Cesare Battisti.
Da sinistra a destra, in alto: Soffici ferito, 1917; Antonio Baldini sulla via di Jamiano con in mano un elmetto di ricambio, 1917; Massimo Bontempelli (il secondo da sinistra nel gruppo); in basso: Corrado Alvaro ferito; Giuseppe Ungaretti; Mario Sobrero corrispondente di guerra; Giovanni Comisso.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 22.05.35

Citazione: Lorenzo Gigli, “L’albo d’oro d’una generazione,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2130.