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Titolo: Calcomanie

Autore: Camillo Sbarbaro

Data: 1935-07-30

Identificatore: 1935_263

Testo: Calcomanie
Donna in treno
Nel corridoio a luci smorzate, notturno, una giovane donna è comparsa: interdetta, scorgendomi, come sorpresa a fuggire. È ancora impacciata di sonno. Voglioso di sbocciare, già in lei qualche cosa aggallava, tornendole la gola; senza sospetto, già essa si disponeva a stirare, gatta al sole, le membra impigrite. L’un gesto e l’altro elude scorgendomi: risoluta abbassa il cristallo, s’espone in un brivido alla doccia dell’alba.
S’è sporta appena che, punta, si ritrae, e, maliziosa, resta nell’ombra, sospesa come in un agguato. Qualcuno cui si attendeva e che io — preso dal gioco di questa faccia — non cerco neanche di vedere.
Un colpo di riso che la donna subito ha e reprime, m’avverte che colui s’è mostrato nel riquadro del finestrino.
Subito, ma senza convinzione, essa tenta di spicciarlo di là con un no precipitoso. Ma sin d’ora che fatica a tenersi seria!
Com’ella sapeva d’avanzo, colui insiste; con moine, si vede. Di riso la donna trapela; ma si irrigidisce, quasi stringere le labbra bastasse per vincersi; immobile, quasi il minimo movimento la potesse far traboccare.
E infatti a ridere ha appena cominciato che di riso la donna è già tutta una falla.
Non cerca neanche di tener testa alla piena; perde contegno, persino un po’ vergognosa, nei miei riguardi, di mostrarsi così poco padrona di sé.
Bollendo, dà indietro; e, ad ogni passo che arretra, avanzando la mano a schermirsi, pare sia quello da terra, insinuandosi nell’interno, a farla arretrare.
Ma, per quanto distolga il viso, gli occhi le restano là invischiati: come quelli del serpente, per quanto dondoli il capo, allo zufolo dell’incantatore.
Finché, ridotta alla parete, la mano non la leva più che per chiedere mercé; e, addossandosi, s’erige: quasi la tentazione fosse un’acqua che salisse; anche lì, pur tra scrosci e sussulti, durando a negare — col capo, ché con la voce non le riuscirebbe più.
Quando una donna nega così a precipizio e con quella fronte per giunta, è vicina a capitolare. Sentendosi infatti spacciata, d’un dito la viaggiatrice scarta alle spalle la parete, v’entra, se la sigilla dietro di colpo. È fuggita.
Ricordo di Siracusa
Alla fonte di Aretusa si giunge a non volere.
L’acqua è corrotta di salso; ma d’una smentita così aperta alla tradizione nessuno si addà. Colombi in domicilio coatto vi compiono sopra le loro evoluzioni con la grazia di quelli finti sulla coppia o il cuore della cartolina al platino; una flottiglia di papere, pettorute come cacciatorpediniere, vi parte ogni momento in ricognizione.
Vi sono bensì i papiri: prole dell’Anapo, emblema vegetale di Siracusa. Ma qualunque, acqua la gradirebbero più di questa che li indispone.
Tre in numero: tre smilze canne capellute in cima.
Lui solo, il papiro, s’accorge del trucco e lo dà a divedere con quest’aria malazzata e dispiacente. Egli sarebbe nel salotto degli arricchiti l’autentico nobile decaduto che vi si attira per farne mostra; in questa partita la carta su cui tutto il gioco si regge.
Per ciò che il Municipio non gli lesina riguardi. Uomini a mezza braca nell’acqua lo liberano dalla calca delle erbacce, lo sostentano dove vacilla. Nonostante, il servizio di rappresentanza lo mette presto fuori uso. Ogni poco il papiro riceve il cambio; nottetempo, come il piccolo posto avanzato.
Intorno, saputo di che si tratta, gente scesa d’ogni parte esala in tutte le lingue il suo contento. Con questa bellézza, caldeggiata dal portiere d’albergo, garantita dall’asterisco della guida, l’ammirazione è di rigore come l’abito alla riunione di società. Per dove il Tempo è passato o si crede, la gente si mette spintonandosi: è a suo agio, alla fine, come chi fa professione di gusto col testo uscito di quarantena alla Immortalità: lo assiepa ad ogni pagina di note ammirative.
Dal coro scampa, meno male, una « britanna vergine ». L’indice ancora nel libro, improvvisamente essa piega alla commozione come la vela alla raffica. Ha un mancamento nell’anca e si appoggia alla ringhiera.
Nel clamore delle papere, gusto la sincerità del suo commento. Angolosa e pesante, ha una faccia di maschio quarantenne arrugginita dall’attrito dell’aria. Sì, nessun Alfeo traverserà il mare per lei.
Etichetta di gran vino su mediocre bottiglia, tenta il salvataggio della fonte la lapide murata di fresco che reca in oro i versi di Virgilio (quelli di Pindaro avrebbero fatto più spicco).
Il visitatore, nutrito di studi classici, la compita e non la intende.
Camillo Sbarbaro.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 30.07.35

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Citazione: Camillo Sbarbaro, “Calcomanie,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2172.