Proust (dettagli)
Titolo: Proust, tredici anni dopo. Critici italiani di Proust - Privilegio della solitudine - Gli epigoni
Autore: Lorenzo Gigli
Data: 1935-08-13
Identificatore: 1935_273
Testo:
Proust, tredici anni dopo
Critici italiani di Proust - Privilegio della solitudine - Gli epigoni mediocri - Forma e contenuto in Proust - Unità della sua opera Presentimento della crisi del mondo - Una nuova "commedia umana"
Il giorno della morte di Marcel Proust (sono trascorsi tredici anni) Lèon Daudet scriveva in una delle sue cronache quotidiane concludendo un rapido esame dell’opera dello scrittore: «Da questa universalità e da questa tendenza analitica in profondità è uscita un’opera senza equivalenti, di dimensioni straordinarie, le cui conquiste saranno rapide. Si tratta ora di darle il suo posto ». Dopo d’allora che posto si sia dato a Proust e quale sia stata la sua influenza europea, comunque la si giudichi e la si possa oggi circoscrivere, è superfluo ricercare. Tutta una letteratura analitica e introspettiva — anche se mediocre e non durevole — prende origine e nome da lui. La chiave proustiana apre una quantità di segreti e di pseudosegreti in cui si risolvono ricerche, tendenze e maniere le più varie e dissimili, raccolte sotto un’etichetta unitaria sul piano estetico e psicologico. Quanto al piano etico, la comparsa del ciclo proustiano ha posto una somma di problemi generali, da quello della libertà dell’artista a quelli dello stile. A studiarli e a risolverli, in Italia si son provati parecchi critici, il Maranini, per esempio, il Debenedetti e Francesco Casnati, i’esegeta di Claudel, il quale ha fatto posto al Proust in una collana che presenta al lume della consolazione cristiana alcuni grandi spiriti d’ogni tempo, scelti anche tra coloro che più sembrano lontani per dottrina, sensibilità e costume dalla fede e dalla pratica religiosa (in questo senso la monografia del Casnati, edita dalla Morcelliana di Brescia, è una chiave: nell’opera di Proust, anche se egli non v'arrivò per illuminazione di fede, è da vedere la grande lezione del dolore accettato come stimolo d’azione e di disciplina di vita « e l’affermazione di un valore assoluto che quella vita spieghi e giustifichi »). Ancora il Casnati rileverà che l’influenza di Proust è stata senza proporione con la curiosità e l’interesse che ha suscitato, e se è già immensa la sua bibliografia critica in nessuna letteratura è apparsa un’opera durevole che porti palese il suo segno. Esatto. Ma codesta « sterilità » non distrugge nè la posizione ideale di Proust, che riassume e conclude l’esperienza d’alcune generazioni letterarie, nè scuote la sua grandezza d’artista. Dell’isolamento d’un maestro in mezzo agli osannanti clamori d’una turba d'epigoni mediocri noi abbiamo un esempio in casa, ed è quello di Gabriele d’Annunzio. La gloria si sconta prima di tutto con la solitudine. Che, specie nel caso di Proust, non è soltanto un pittoresco e patetico elemento della biografia.
Alla bibiiografia critica proustiana s’aggiunge ora un altro cospicuo apporto italiano: è il Marcel Proust d’Aldo Capasso, folto volume di 360 pagine, pubblicato come XVIII numero della Biblioteca della « Rassegna » di Achille Pellizzari (Società Editrice Dante Alighieri, 1935, L. 30). Il Capasso pone il problema estetico di Proust copie problema tonale e come problema compositivo: un’opera poetica deve, differendo dalle espressioni astrattistico-utilitarie, possedere un tono, una musica interna quale non può trovarsi nell’espressione che si considera puro mezzo; e deve, differendo dall’accumulamento arbitrario d’espressioni separatamente liriche, possedere un centro, una composizione, un soggetto centrale al quale si riferiscano tutte le leggi di regolarità, compresa quella di regolarità tonale. Codesto paradigma di critica estetica è dal Capasso rigorosamente applicato: egli S’affisa in questi due problemi, esamina l’opera formalmente e contenutisticamente, cerca di contemplare ora l’atto del soggetto nel suo vivo farsi, ora l’oggetto quale appare di necessità, concluso in sé, quasi indipendente. I due cammini convergeranno se la ricerca sarà sagace. L’unità dell'opera proustiana, se esiste, « non potrà essere altrimenti assodata ».
In altre parole, il critico si propone di vedere se la « Récherche du temps perdu » si divida in due sezioni: una narrativa ed una astratta, o, come oggi si direbbe, saggistica; « o se essa si divida in un polverio di notazioni arbitrarie per la tendenza psicologistica che oblitera la necessità narrativa ». È, nel caso di Proust, un metodo particolarmente buono per giungere alla verità. Partendo dall’analisi dei toni sentimentali e lirici nell’opera proustiana, il critico s’avvia verso il problema compositivo; ma tra l’analisi tonale e la definizione del soggetto centrale egli frappone qualche capitolo per riassumere e discutere le principali tesi critiche riguardanti il Proust. È questa forse la parte più interessante dell’attenta e meritoria fatica del Capasso, la cui monografia costituisce una introduzione a Proust e insieme una guida tematica quanto mai precisa. Servirà a orientare definitivamente più d’uno. Gli equivoci- su Proust sono infiniti; e un tentativo di critica sistematica come questo, anche a distanza di tredici anni dalla scomparsa dello scrittore, e dopo l’enorme apparato bibliografico che lo riguarda, è pur sempre opportuno.
Resterebbe da dire delta posizione ideale di Proust e della sua fortuna nel suo tempo e dopo, e qualche motivo l’abbiamo già accennato. Che Proust più che l’araldo di una generazione possa considerarsi il punto d’arrivo e la conclusione dell’esperienza di generazioni precedenti è vero soltanto in parte. Il suo panorama della dissoluzione di una società è insieme un consuntivo drammatico e spietato e una aspirazione anticipatrice: C’è in ogni momento della sua diagnosi il senso della crisi spirituale del mondo, l’avvertimento che il processo di decadenza è giunto al suo epilogo e che l’alba del « novus ordo » sta per spuntare. L’ieri e l’oggi desolati di Proust sono in funzione di un non precisabile domani. Frattanto egli, in tanta negazione e miseria, in tale deserto d’ogni speranza e d’ogni fede, reagisce nell’unico modo che gli è consentito, rifugiandosi nell’arte e derivandone quella virtù d’evasione e d’evocazione, quell’aura d’incanto e di mistero di cui si riveste prima la realtà più cruda, quella divina melanconia ch’è la musica segreta dell’opera proustiana. Di questi temi lirici più che degli elementi pratici della sua fortuna bisogna, ci pare, tener conto per un inquadramento storico di Marcel Proust, per precisare fino a che punto e in qual senso egli possa definirsi un rappresentante della sua epoca. Il suo novecentismo è, più che in fatti, in potenza. La sua facoltà di attaccarsi all’inesprimibile e di risolverlo decomponendolo per piani secondo un metodo sintattico che gli è proprio fu, a tutta prima, un passaporto negativo. Ma nasceva così la « commedia umana » del tempo nuovo, a finestre ermeticamente chiuse, non per un capriccio di decadente, ma per una necessità di morituro.
Lorenzo Gigli.
Marcel Proust
nel 1922, l’anno della morte.
Istantanea di Proust a Venezia (1913).
Marcel Proust col fratello Roberto (da una fotografia del 1877).
Una bozza di stampa del Temps retrouvé con le correzioni autografe
di Proust.
Collezione: Diorama 13.08.35
Etichette: Fotografia, Lorenzo Gigli
Citazione: Lorenzo Gigli, “Proust,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2182.