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Titolo: Mezzanino, l'uscio a destra

Autore: Ugo Betti

Data: 1931-11-25

Identificatore: 220

Testo: Mezzanino, l’uscio a destra

L’uomo trovava l’uscio sulle scale socchiuso, guizzava dentro rapidamente, sentendo subito nel buio un fiato caldo, un bisbiglio, e poi richiudersi il chiavistello cautamente. Con un riso muto e battendo i denti la donna lo conduceva avanti come un cieco, sussurrando con stizza: — Questo tremito! Mi viene sempre quando tu devi venire, ma tanto tempo prima. — Gli stringeva forte la manica come per paura che fuggisse, parlando con volubilità, risucchiando nervosamente nel vederlo tastare il buio, e subito domandandogli allarmata: — Non ti sei mica offeso, vero? — Non si poteva accendere per non dar nell'occhio ai vicini, che si sentivano infatti nei cortiletti, nelle logge, tossire, muoversi, battere il lardo, tirare l’acqua nei gabinetti. Gli ripeteva con tono supplichevole che se lo levasse, il cappotto, anche il cappello; diceva che così le faceva paura, le pareva più grande, un’ombra lunga, con un volto biancastro, e due incavi scuri che erano gli occhi. Immaginando che forse lui non si levava il cappotto per essere pronto a fuggire caso meli fosse tornato a casa il fratello di lei, gli spiegò che non doveva aver paura, che si era sicurissimi. Siccome l'uomo aveva fatto un gesto, ebbe timore d’essergli dispiaciuta, lo supplicò con voce quasi tremula che almeno sedesse, che sarebbe stato comodo, li sopra. Voleva fargli sentire una specie di piumino messo appositamente sopra il baule, nell’andito. Subito, un po’ umiliata, immaginando che lui disprezzasse tutto questo, tornò a spiegargli che era l’unico posto, di là non si poteva, c’era la vecchia (cioè sua madre) sempre malata, sveglia. Tutti e due, ora, tendevano l’orecchio per sentirla, la malata, per sentire almeno un sospiro; quel silenzio assoluto, da quella parte, dava un’oppressione. Per superare il malessere, l’uomo chiese con brutalità se per caso la vecchia non fosse morta.

La donna riducchiava, col suo tremito. Le succedeva una cosa curiosa: i rumori della casa, il lume che ora si era acceso in un acquaio di faccia, e poi le cose del giorno dopo e poi tutti i giorni che dovevano vertire, la madre lì a due passi, il fratello che poteva anche capitare, ammazzarla, tutto, in quel buio, le stava davanti ovvio, stupido, senza realtà, come davanti agli occhi d’una sonnambula. Sentiva solamente sotto la guancia la stoffa ruvida del cappotto dell’uomo, un odore di tabacco. Le sembrava inverosimile, ora, che il giorno dopo avrebbe di nuovo fatto bollire il latte. Il giorno dopo, del resto, lei avrebbe potuto anche uccidersi, oppure andare a passeggio, oppure rammendare la biancheria, tutto era uguale. Vi era un grosso bottone che le premeva la guancia, ed ella avrebbe voluto farsi ancora più male, a sangue. Gli chiese se fuori pioveva, se s’era infangato, con un vago desiderio di pulirgli gli stivali col grembiule, di baciarglieli.

Si, pioveva, fuori. L’uomo si sentiva indolito sotto le scapole, al solito. Sentiva il cattivo odore della casa, soffritto ed afa di ferro da stiro. La vedeva anche ad occhi chiusi, la casa misera, macchie d’umidità, cartoline illustrate alle pareti, il tappetino sul tavolo, il pavimento di mattoni rotti. Sapeva che la donna, a lume acceso, non avrebbe avuto coraggio di tenerlo abbracciato, di trattarlo con tenerezza; avrebbe avuto un po’ vergogna di fargli vedere il volto sciupato, la biancheria non tanto pulita. Provava la voglia di farle qualche scherzo brutto, grossolano. In realtà era disgustato soprattutto di se stesso, della sua schiena indolita, delle fantasticherie tetre, ossessionanti che non volevano uscirgli dalla testa stanca; gli pareva proprio di essere un verme, di quelli che vengono fuori con la pioggia. La donna indovinava tutto questo e si stillava affannosamente per trovare il modo di rabbonirlo, di interessarlo, di farlo sedere almeno, perché aveva soprattutto paura che Ini volesse andar via subito, e poi lei sarebbe rimasta li sola. Non sapeva far altro che dirgli, ma timidamente, se aveva freddo. Lui borbottò quasi forte e facendo l’atto di muoversi, che voleva andar via, che aveva i nervi.

— Vai via? Vai via davvero? Aspetta, sta qui un po’. Mi dispiace tanto se vai via. Non essere così. — Le veniva quasi da piangere, mentre diceva questo, pensando che era tanto infelice, non aveva nulla, col vestito macchiato di cucina, il seno sfiorito. Lui si fermò indeciso, e lei subito si senti riempire tutto il petto dalla contentezza come da un vino tiepido, perché capiva che non sarebbe più andato. L’aveva spinto a sedere; poi gli levò il cappello, che tenne un attimo in mano col desiderio, quasi, di nasconderglielo. — Dove l’hai messo, dov’è? — bisbigliava lui, perché voleva ricordarsi bene dove era posato il suo cappello, per esser pronto a riprenderlo in caso di sorprese. — Sei comodo? — chiedeva lei. — Ti dò fastidio così? — Si stringeva a lui e intanto pensava intensamente che cosa avrebbe potuto fare per trattenerlo, per legarselo. Si sentiva pronta a fare qualunque cosa e si rammaricava che lui non le comandasse qualche cosa di molto faticoso, o doloroso, che richiedesse anche di rovinarsi, di straziarsi.

D’un tratto lui cominciò a sentirsi comodo, a provare un senso di benessere. Allungò una mano, incontrando i capelli di lei, glieli tirò, le grattò sotto il mento come si fa coi gatti. Lei, col cuore pieno di gratitudine, rideva silenziosamente mordicchiandogli le dita, una per una, ma piano, per paura di farlo inquietare. Gli tastò il volto, per sentire se lui rideva, se era allegro. Gli bisbigliava: — Ora stai bene, vero? Si, sei contento. — Gli disegnava la faccia con l’indice, leggermente, gli faceva le sopracciglia, la bocca, il naso. Capiva benissimo quando lui tendeva l’orecchio, gli diceva: — Questo è il figlio della levatrice, che scende. Ora è la maestra, che ha chiuso il terrazzino. — Stando così al buio si capiva come i passi sono diversissimi, proprio come fìsonomie, sembrava di vedere. Ascoltavano quasi con ansia voci dalle cucine, frasi staccate, che risultavano burattinesche, angosciose, risposte da una stanza all’altra, di cui non si era sentita la domanda. « Sta sotto, guarda sotto »; « Si chiama Ferretti »; « Alle otto, domani ». La sensazione di essere li a due passi eppure lontanissimi, fuori, come al di là, come in un altro spazio, dava a tutti e due una specie di eccitazione, faceva venire a galla idee strane, che non credevano d’avere. Tutto quell’affaccendarsi pareva spettrale come se lo vedessero laggiù, fra prospettive livide e strapiombi di buio. Pareva davvero impossibile che accendendo la luce si sarebbe visto il solito attaccapanni mancante d'un piolo. Si poteva dire qualunque cosa, in quel buio, si poteva fare qualunque cosa, anche orribile. — Io forse ho paura di morire — disse d’un tratto la donna quasi senza volere. — Ci penso sempre.

Le pareva di avere dentro delle parole profonde, paurose, e avrebbe voluto dirle a lui, fargli capire. La voce di lui rispose che era la terra, a far paura, il non potersi voltare, drizzare, l’acqua. — Ora però no, non mi fa paura — soggiunse lei.

— Perché ora mi sembra... come se fossi già morta... e fossi lontano, supina. — Teneva gli occhi chiusi, parlando, poi li spalancava, e allora, verso la finestra, un chiarore tenuissimo in forma di T la ipnotizzava. Si udiva un rumore come di grondaia, era la moglie del maestro che annaffiava i fiori. Anche lui ora sentiva come una gran libertà, come se stesse in uno spazio scuro, senza più nulla. Voleva esprimere questo, ma non sapeva. Disse con rozzezza, con disprezzo, che lo facevano ridere tutti. Poi, con una specie di ardore chiuso, aggiunse che lui, a pensarci bene, non era affezionato a nulla, a nulla. — Pensa — disse d’un tratto — potrebbe venirmi un male, potrei morire qui. Sarebbe un bell’impiccio, per te. — Egli immaginava sempre queste cose. Videro tutti e due il corpo dell’uomo, sui mattoni, bocca in sotto; poi la donna che accende, che si piega a tastare la faccia violacea, le palpebre con sotto un che di bianco. — Io lo so, quello che mi faresti — riprese l’uomo con rancore. Vedeva la donna, ansimante, trascinare il grosso peso con un fruscio sordo, metterlo fuori, sbarrare l’uscio. Eccolo, il corpo, col capo torto, il cappello troppo calzato, il cappotto rinfagottato alle ascelle, di traverso sui gradini, rattrappito, terribile; finché qualcuno, nella notte, salendo, inciampa, grida. — Io sì che ti potrei uccidere, lasciarti qui per terra. Nessuno saprebbe; non lo sa mica nessuno che vengo. — Le apriva la camicetta, quasi le faceva male davvero, premendole sul ventre col ginocchio, eccitato dal buio, dai discorsi. Lei diceva di si, che avrebbe voluto davvero essere uccisa, quasi si offriva a farsi maltrattare, gualcire, con una docilità che accresceva in lui quella specie di accanimento. Stretta a lui, respirando quell’odore di sigaretta, le pareva quasi, con un acuto impietosimento, d’essere una bambina, oppure una bestiola innocente, come se lui dovesse ucciderla sul serio, ma lei era contenta, voleva.

Lui aveva caldo, adesso. Sentiva che lei aveva un rammendo, sentiva anche un odore di sapone; per non sapere d’acquaio, si doveva esser lavata, aspettandolo; se la figurava, già presa da quel tremito, curva con le spalle meschine sopra una catinella sbocconcellata, nella cucina squallida, gelida. D’un tratto l’uomo si senti invadere da una grande compassione, non sapeva bene per chi. La donna, ogni tanto, badava a tenerlo in qua con la mano, perché non si sciupasse il vestito sui ferri del baule. A lui questo gesto, chi sa perché, faceva ricordare sua madre, gli faceva gonfiare gli occhi di lacrime. Aveva cominciato a baciarla. Sentendosi il cuore battere sempre più forte, cercava faticosamente, finché era in tempo, di ricordarsi dove aveva messo il cappello, come doveva fare, in caso, a fuggir via. Ora tutto era sparito, per lui, non c’era più nulla del mondo, del tempo, tranne questo corpo caldo. Premeva il volto contro di lei, sulla spalla, come fanno i bambini, con gli occhi chiusi e l’espressione di chi implora qualcuno. Gli pareva confusamente come di chiedere perdono, oppure di ringraziare piangendo, oppure di gridare con disperazione e rivolta e come abbagliato da lampi foschi, che lui era tanto infelice, anche malato, bagnato, aveva tanto freddo, era povero, era un povero essere, ah solo questo almeno, solo questa gioia, per pietà! La mano della donna gli carezzava i capelli quasi maternamente. Sentendo quei capelli fini delicati, lei provava un grande intenerimento; ricordava qualche tratto gentile di lui, anche nell’aspetto, i denti minuti, ad esempio; le pareva davvero d’avere fra le braccia un piccolo bambino.

Ugo Betti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 25.11.31

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Citazione: Ugo Betti, “Mezzanino, l'uscio a destra,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/220.