Lo specchio di lusso (dettagli)
Titolo: Lo specchio di lusso
Autore: Francesco Chiesa
Data: 1935-11-19
Identificatore: 1935_296
Testo:
Lo specchio di lusso
Al primo entrare in quello stanzone buio e triste (novembre, pioveva), i miei occhi corsero verso la parete di fondo, attratti da non so quale luccicamento. Poi vidi ch’era uno specchio, un grande specchio chiuso in una spettacolosa cornice d’oro, tutta fogliami, fiorami, puttini. Le altre cose là dentro erano quanto di meno lussuoso: una vasta tavola nel mezzo, coperta del tappeto verde e nero che si vede in ogni osteria; un sofà, una credenza, un paio di poltrone, una folla di sedie d’ogni razza e d’ogni colore, alte basse, striminzite, radunate intorno alla tavola, addossate alcune alle pareti... Quanto di più modesto (salvo quell’incredibile specchio) la sala del signor Migliorini, negoziante di legnami e combustibili, presso il quale mio padre volle collocarmi in pensione all’inizio de’ miei studi universitari. — È gente alla buona — mi ripetè mentre salivamo le cupe malpulite scale, — ma brava gente sotto tutti i riguardi... Del resto, non c’è da scegliere. O ti adatti, o si lascia lì. Sai le mie rendite.
Brava gente di certo i Migliorini; e anche i loro pasti, no, non si poteva dire che fossero scellerati. Strano però che per tre persone: il signor Alessio, la signora Adalgisa ed il loro unico pensionante, si dovesse tener lì impiantata in mezzo alla sala quella tavola ampia come una piazza d’armi, e tutte quelle sedie intorno. Poi capii. Un giorno sì, un giorno no, c’erano commensali: non meno d’un paio per volta, spesso tanti da dover ricorrere alle sedie mobilitate nelle retrovie. Uomini, donne, vecchi, giovani, persone singole, persone a grappolo, madri con dietro un saggio della loro fecondità. Dapprima mi venne l’idea che casa Migliorini fosse una specie di trattoria privata, una mensa frequentata da gente che forse capitava in città di tanto in tanto, e preferiva un trattamento di famiglia. No, erano, salvo eccezioni, la numerosa e varia parentela della signora Adalgisa.
La quale signora Adalgisa era una donnina minuta, di scarsa apparenza, ma tutta dignità, autorità e comando. Non che si desse l’aria della tiranna. I suoi no, i suoi sì, a udirne il suono, potevano sembrare quanto di più vago e tentennante; e mai accadeva che dicesse: voglio. Diceva: non ti pare che sarebbe meglio fare così?... Diceva: quasi quasi, penserei che... Ma sempre, sotto quelle dolcezze, si nascondeva una deliberazione già presa, una volontà irremovibile. La sua condiscendenza verbale non aveva limiti nella questione di quegli affamati parenti. Accettava con un mesto sorriso le rimostranze del signor Alessio, i duri vocaboli: vergogna, scandalo, mortidifame, succhioni, piattole... « Già! — sospirava. — Non praticano molto la virtù della discrezione». « Ma che discrezione! Peggio d’una nidiata di topi in una forma di formaggio... ». E stringeva e scoteva il grosso pugno.
Grosso pugno e grosso pezzo d’uomo il Migliorini: due spalle da supplire quelle d’Atlante; un testone ricciuto, barbuto, burbero e acceso come quello che certi pittori del Rinascimento prestavano al pescatore San Pietro. E iracondo: capace di lanciare contro la parete il piatto colpevole di contenere una minestra troppo scottante. Ma poi si contentava di lanciare contro la parete il pugno chiuso, un pugno che avrebbe sfondato una fortezza. E presto m’accorsi che il minaccioso pugno sempre mirava nella direzione dello specchio.
— Ah, anche lei guarda quel coso? — mi disse una sera ch’eravamo lì soli, io e lui. Udendomi rientrare, m’aveva chiamato dalla sala: — Venga, venga. Madama ha l’emicrania e s’è ritirata nei suoi appartamenti. Venga a berne un bicchiere con me —. Aprì lo sportello d’una cantoniera piena di scartafacci, di libri sciupati, di dietro i quali trasse una bottiglia rugginosa che sturò e ne ripulì ben bene col pollice l’imboccatura. — Beva. È Barbaresco di cinque anni. Buono, vero?
— Eccellente.
— È l’ultima delle cinquanta bottiglie che avevo in cantina. Le altre quarantanove sono finite nelle gole di quei malnati. Una sola, questa, ho potuto salvare L’ho nascosta dietro quelle carte un'altra sera come questa, che Madama aveva l’emicrania.
Veramente ottimo quel Barbarésco; e io non credo che pensassi ad altro. E se i miei occhi si alzarono verso lo specchio, fu puro effetto fisico di quello sperlucimento, attrazione di quella cosa vistosa. Ma il signor Migliorini interpretò altrimenti e avventò il solito pugno nella direzione dov’io guardavo.
— Anche lei guarda quel coso... E magari trova, anche lei, che è l’onore e la gloria di casa Migliorini... Anche lei pensa, senza dirmelo, che quando si ha in sala un monumento così, bisognerebbe da trenta far trentuno, e parare di seta i muri, e coprire il pavimento di tappeti persiani, e far un falò di tutta questa miserabile mobilia, e portare qui dentro il trono del re e il divano del pascià... No, lasci dire. Non le' dò torto, sa? Anch’io, se fossi come lei un giovinotto entrato in questa casa quindici giorni fa, direi: Qui c’è un po’ di contrasto. O tutto come lo specchio, o tutto come la tavola e le sedie... Giusto. Ma l’errore è di credere che l’abbia appeso io, quel coso d’oro, che sia roba mia. Io, qui dentro, ci ho messo le cose utili e necessarie: le sedie per sedersi, la tavola per mangiarci, e anche quello che si mangia sulla tavola. Capisce?
Quella sera forse non capii tanto. Ma qualche giorno dopo, un pomeriggio, avendo bisogno d’un po’ di legna per rinutrire la stufa, entrai in sala e vi trovai la signora Adalgisa che sedeva presso la finestra lavorando all’uncinetto. Legna non ce n’era più in casa; avrebbe dato gli ordini opportuni... Avessi pazienza. Poteva anche offrirmi, per intanto, uno scaldino con un po’ di brace... Tutto questo, detto nel tono d’una regina che si compiace d’essere amabile coi sudditi. — Si sieda, — soggiunse. E fu come se mi largisse una grazia.
Accettai, divertito da. quei modi. Dopo le prime quattro parole, Madama Adalgisa diede al discorso un avvio che le permise di presentarmi in compendio la storia, anzi il dramma, di casa Migliorini. In sostanza: il dramma della nobildonna costretta dalla iniqua sorte a diventare moglie d’un marito plebeo. Sulla qualità plebea del signor Alessio, scivolò via con ostentata generosità; ma molto calcò sulla nobiltà della propria famiglia ridotta un giorno ai soli titoli ed al culto degli avi. — Non le dico che casa fosse la nostra... — E mi accennò con gli occhi la sfarzosa reliquia di quel fasto, venuta a ricoverarsi nella squallida bicocca del signor Migliorini, mercante di combustibili. A ricoverarsi?
Capii allora cosa volessero dire i pugni del Migliorini alla volta di quel metro quadrato d’oro, che si dava l’aria d’onorare la sala, chinandosi un pochino, come il volto d’un grande venuto io mezzo al popolo. Non riuscivo però a spiegarmi perché mai il Migliorini s’accontentasse di quell'ostile gesto e non fracassasse davvero l’arrogante intruso, non lo mandasse, almeno, a risplendere sotto le tegole della soffitta.
Ma anche quel mistero mi si svelò qualche tempo dopo. Una notte fui svegliato di colpo da un terribile fracasso come se la volta del cielo fosse andata in cocci. Mi alzo, mi metto indosso qualche cosa, accorro e trovo in sala il Migliorini con una candela in mano, vestito della sola camicia, coi piedi nudi in mezzo a un luccicamento di cose sparse: rottami, schegge, che coprivano tutto l’ammattonato... Si, lo specchio era caduto con tutto il peso della sua gloria, frantumandosi in mille pezzi e pezzetti, schizzando oro, argento, fogliami, amorini in tutte le direzioni.
Comparve anche la signora Adalgisa, ravvolta nella sua pellegrinetta di seta nera, coi piedini magri infilati nelle babbucce gialle che ben conoscevo.
— E, già! — disse il Migliorini con una calma perfino eccessiva. — Pesava. Pesava...
— Il chiodo avrà ceduto, — dissi io.
— No, credo che sia per via del legno cariato.
Si chinò a raccoglierne un pezzetto, e lo sbriciolò con la punta delle dita come si fa di un biscotto. La signora Adalgisa, nemmeno una parola le uscì di bocca. Guardò un istante e disparve.
Quella notte fu l’inizio d’un insopportabile malandare in casa Migliorini. Non esisteva quel cosone sgargiante verso cui potessero dirigere, lui i suoi pugni, lei i suoi sguardi. Il loro dissidio, non più espulso, non più proiettato verso quel benefico simulacro che accettava egualmente l’odio e l’amore neutralizzandosi nel suo silenzio sornione, diventò esplicita guerra. Tutti i giorni, liti, rinfacci, musi; e non dico se la cucina e gli altri servizi ne risentissero.
Onde scrissi a mio padre:
— Pianto lì, se vuoi, gli studi. Ma casa Migliorini, padre caro, la pianto di certo...
Francesco Chiesa.
Collezione: Diorama 19.11.35
Etichette: Francesco Chiesa
Citazione: Francesco Chiesa, “Lo specchio di lusso,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2205.