Uno giornata memorabile (dettagli)
Titolo: Uno giornata memorabile
Autore: Mario Sobrero
Data: 1936-01-14
Identificatore: 1936_25
Testo:
Una giornata memorabile
Vi sono nella vita ore che costano poco e valgono molto. Non è affatto strano che, dopo qualche anno, questa semplice passeggiata mi ritorni alla mente in ogni suo particolare. Avvenimenti rari, pieni di promesse, preparati con grande cura e pagati a caro prezzo, non lasciano poi altro che una voglia di dimenticarli; ed invece degli episodi facili, fatti di niente, restano per sempre tra i ricordi che danno gusto all'esistenza e che gettano sul passato raggi di luce gradevole. Dipende dall’animo: sono momenti d’innocenza, di accordo con l’universo, nei quali tutto sembra buono, tutto si scrive nella memoria con lineamenti puri e colori festosi. Ma è possibile raccontarli?
Parto una mattina da un ricco e splendente paese in riva al più bel golfo della Riviera. Dinanzi a me ho una giornata da spendere liberamente, senza scopo. Ha piovuto parecchio, ed oggi c’è il sole d’aprile, con molte nuvole bianche che vanno e vengono. Mi metto per la montagna, a piedi, in cerca d’un paese che, veduto dalla sponda opposta dell’insenatura, sembra il luogo più felice del mondo: poche case nascoste presso una gran chiesa di gesso posata in alto sulla costa coperta di ulivi, davanti a questo mare incorniciato di giardini.
Presto scompaiono dalla vista i grandi alberghi con le loro cupole di zinco. Salgo le scale degli uliveti, seguo strade strette ed erte; dappertutto fiori, i luoghi all’ombra sono umidi ma, se si passa al sole, ci si scotta. La montagna è modellata con molte pieghe profonde; presto non si vede più il mare, e dove si trova una casa sembra spersa, solitaria, sebbene queste alture siano assai popolate e non vi rimanga spanna di terreno la quale non mostri d’essere lavorata, lisciata. Il golfo, a pensarvi, pare lontanissimo.
Sarò sulla strada buona? Non importa, in qualche paese arriverò. Si passa accanto ad orticelli cinti di rete metallica, a pollai; si ode un dialogo di donne invisibili, che parlano appunto dei loro ortaggi e delle loro galline. Una frotta di ragazzetti, maschi e femmine, mi rovina addosso da un sentiero per vendere mazzetti di fiori, legati con certo filo bianco e rosso che in campagna s’adopera ancora a far le calze. Da valli oscure che s’attraversano, scendono acque saltellanti; risalendo collo sguardo fino al ciclo, si ritrova qualche forma della montagna conosciuta soltanto da lontano, una cima con un santuario, in pieno sole; c’è ovunque piccoli uccelli che cantano, aria immobile, e quell’odore della primavera nel quale, col profumo dei fiori, coi sentori degli alberi che mettono le gemme e delle siepi che caccian fuori le foglioline, si sente ancora un poco l’inverno, le foglie fràdice dell’anno prima. Non si hanno più intorno che uliveti, macchie di cipressi, qualche frutteto e qualche vigna dove il sole batte meglio. Il golfo è dimenticato.
Finalmente giungo ad un ripiano, una specie di tappa che si chiama San Pantaleo. Non vi esiste altro che una piccola cappella ridipinta a nuovo ed un’osteria che è anche spaccio di commestibili; tra l una e l’altra, un giardino con l'insalata oppure, se si preferisce, un orto con le viole del pensiero. Che appetito! Faccio colazione proprio nella bottega, di fronte al banco della mèscita, guardando salami e prosciutti pendenti dal soffitto, i cartelli dei liquori, appesi alle pareti con immagini di donne, e sugli scaffali pile di sapone marmoreggiato, scatole di conserve, pacchi turchini di candele. La colazione è saporita e mi serve un giovine timido — non ho visto altre persone nell’osteria — il quale sembra essere qua per caso con suo enorme imbarazzo.
Ho ripreso il cammino: il giovine me lo ha insegnato ed il suo cane mi ha accompagnato un tratto, per tornare poi indietro all’improvviso come se abbia toccata la sua frontiera. Riesco sopra un altro versante e rivedo il golfo, acqua fine, spazio tutto luce, con barche di pescatori in lontananza che a due a due trascinano le reti. Nuvole più grandi si radunano, preparando qualche scherzo, e negli istanti in cui coprono il sole fa freddo. Ecco là il paese cercato, quella chiesa di gesso. Sulla prima delle case, a levare ogni dubbio, sta scritto il nome. (Ma ora non me lo ricordo più). Vie strette messe in pendio verso l’orizzonte marino, case silenziose, qualche villa suggellata, in mezzo a gruppi di palme. In piazza, nessuno: un po’ di vento agita i giornali illustrati esposti fuori della bottega del tabaccaio. Si mette a piovere, fitto.
La massa bianca e fragile della chiesa, col campanile e l’orologio, è visibile da ogni punto; ottimo rifugio, se non è chiusa.
Questo è il piazzale che dall’altra riva del golfo pare una piccola terrazza; vecchi e bassi alberi vi sonnecchiano in fila su tre lati, ed in un angolo c’è un fascio di cipressoni. La chiesa è aperta, ma per ripararsi basta rimanere sulla soglia, alta in cima ad una gradinata; vedo il giro del golfo e, oltre il promontorio che ho di fronte, il mare aperto, attraverso le righe di acciaio della pioggia. Penso che la pioggia non smetterà più e che la passeggiata è guasta. Invece, non si sa come, le nuvole si disperdono; cade ancora un po’ d’acqua, dal sereno; dopo, non c’è più neanche vento. E con cento raggi il sole tocca allegramente Lucie le cose: le tende rosse sull’entrata della chiesa, il gruppo di cipressi, sotto il muricciolo del piazzale ogni casa ed albero della costa, giù fino alla striscia dove la ferrovia corre lungo gli scogli intorno ai quali si arricciano le onde; tocca le città del golfo, i pini trasparenti sulla cresta del promontorio, quelle barche da pesca che non hanno cessato di arare, la linea dell'orizzonte, dove il mare diventa verde.
Di chiesa esce un prete, alto, robusto, con una tonaca incredibilmente costellata di macchie; si fa conversazione. Vive qui con una sorella che ama molto il leggere, ed anch’egli parla di libri, di scrittori d’ogni paese, bene, simpaticamente. Ascoltandolo, lo rivesto con l’immaginazione d’una tonaca nuova, pulita, nella quale fa una magnifica figura. — Ammiravo i suoi possedimenti — gli dico mostrando l’orizzonte, ed egli ha un sorriso chiotto, che lascia intendere molte cose. Era vero che questo luogo è felice. Il campanile, sonando le ore con voce grossa, richiama dentro il prete.
Appena sotto il piazzale c’è un belvedere ancora più arioso, con una panca municipale sulla quale mi siedo a contemplare. Dagli orti del declivio viene qualche voce di gente al lavoro, ma non altera affatto la sensazione che il mondo sia soltanto uno spettacolo. Non ho un pensiero in capo; non m’importa che il tempo passi. Vivo nello spazio, nell’immensa aria, nella luce. La linea dell’orizzonte non è un limite ma un principio: si guarda sempre là. Che cosa vi può essere? Molto lontano ma assai al di qua di quella linea passa un piroscafo. Le barche da pesca ritornano. Il rumore che sale per una strada invisibile dev’essere d’una corriera automobile. Ho in faccia il sole calante sul promontorio. Si sente salire per le scale degli uliveti gente che viene dal litorale, dalle città; ma la pace è immensa, tutto il mondo non è altro che questa pace, tutti i giorni sono questa pace, È bellissimo, il mondo, la vita estremamente facile.
Cambia la luce, di momento in momento; dietro il promontorio si accende un fuoco pieno di gioia. Il campanile, sopra di me, continua a fare con la sua voce grossa il discorso delle ore: lo si sente appena, come in sogno. Io sono così in alto, e non solamente perché il luogo è alto! Mi sembra che parole senza suono attraversino l’aria pura e limpida; che qualcosa sia scritto nelle forme della terra, nella distesa del mare chiuso e del mare libero, nel cielo, dove delle nuvole restano ormai cenci leggeri, dorati o rosei; e sono parole rassicuranti, definitive, le più chiare e semplici che io abbia mai lette.
Infine mi muovo. Dentro gli uliveti discendo scale interminabili, perdendo e ritrovando la visione del mare, passando accanto a cancelli di case, a pollai. Arrivo ad una piccola stazione. È messa tra rocce a picco e scogli, vi era appena il posto per farcela stare, tuttavia tra i binari, tra la cabina dei deviatori e la scala del sottopassaggio, non si vedono che palme, cacti, geranii, vasi di leandri. Il guardasala, invece di forare i biglietti, annaffia le aiuole. Poi, nell’aria scurigna, viene con molto fragore un gran treno illuminato e sembra che mi deva portare in capo al mondo.
Mario Sobrero.
Collezione: Diorama 14.01.36
Etichette: Fuori Diorama, Mario Sobrero
Citazione: Mario Sobrero, “Uno giornata memorabile,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2241.