Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Acqua passata

Autore: Vincenzo Cardarelli

Data: 1936-05-26

Identificatore: 1936_61

Testo: DIORAMA LETTERARIO
Acqua
passata
Non ho voglia di sentir discorrere della « Ronda ». È come se mi si venisse a ricordare un antico amore di giovinezza. La « Ronda » fu, prima d’ogni altra cosa, il prodotto dell’amicizia, di un’amicizia abbastanza rara e nobile, più facile a trovarsi nei romanzi e nei ragionamenti dei filosofi che nella realtà quotidiana. Se io e Riccardo Bacchelli non ci fossimo conosciuti un giorno a Firenze, nella libreria della « Voce », e non avessimo vissuto, operato e camminato insieme per tanti anni, come due clerici vaganti, la « Ronda » non sarebbe mai sorta. E così pure se fra me e Cecchi, Baldini, Saffi, Montano, Barilli, non si fosse svolto in precedenza quel lungo, affettuoso rapporto che ci condusse naturalmente a correre la briosa avventura di questa rivista. In seguito alla quale posso dire di non aver avuto più amici, bensì compagni di lavoro, competitori formidabili: ciò che mi proponevo, in sostanza, e ho splendidamente raggiunto. Quando penso a questo, mi pare di aver sacrificato il meglio della mia vita, ossia le mie più gelose relazioni umane e amicali, ad un movimento letterario, ho l’impressione che della « Ronda » io fui, più che l’ideatore, la vittima, e mi assale un fastidio enorme nel sentir parlare di questa rivista con tanta superficialità e leggerezza.
I discepoli, è noto, hanno sempre avuto l’abitudine di tradire i maestri e la pretesa di erudirli intorno a quelle cose ch’essi hanno loro insegnate. Perciò non è da meravigliare che io mi sia trovato spesso, in questi ultimi tempi, a ricevere lezioni di rondismo, che è quanto dire di galateo letterario, da certi miei sedicenti scolari, agli occhi dei quali è probabile che il traditore, l’apostata, colui che ha gettato la tonaca alle ortiche, sia io. Qualcuno che nella « Ronda » entrò per la porta di servizio ha osato perfino erigersi a interprete e continuatore nostro, facendo cadere le sue preferenze su quegli scrittori che nella « Ronda » stessa rappresentarono, dirò così, una tendenza moderata e scettica e che non devono certo la propria fortuna, sia detto a loro onore, al fatto di aver partecipato a questa pubblicazione. Così l’insegnamento rondista è stato falsificato al punto che su tale materia io non ho più alcuna voce in capitolo. Dovrò dunque ricordare agl’immemori che cosa fu la « Ronda » e come nulla abbiano da vedere certe diatribe letterarie di oggi coi fumi che noi avevamo per il capo in quel fatidico marzo del ’19, allorché andava in macchina il primo numero della nostra rivista? Noi non siamo responsabili del calligrafismo, del saggismo, della poesia pura, della pedanteria di coloro che s’illudono sia sufficiente rimettere in valore gli « ancorché » e i « conciossiacosaché » per essere scrittori perfetti e rondisti della più bell’acqua.
Negli anni del dopoguerra, la « Ronda » usciva denunciando il « contagioso crepuscolo della civiltà europea », predicando la necessità di essere moderni, senza spaesarci, cosa difficile da realizzare, e avvertendo, non si sa Come, forse come gli strumenti sismici registrano il terremoto, i fatti che si maturavano, con una presentazione in cui si possono leggere le seguenti parole, non prive di uno strano presentimento: « L’Italia sta per diventare un paese moderno, ecco la stupenda e sconfinata promessa che si offre al nostro avvenire artistico e spirituale... Nessun paese più del nostro ha tanto da vivere e da sperare per mettersi in regola coi tempi. Ma questo, se non sbagliamo, è il regno dei Cieli che ci si apre ».
Tali sentimenti esprimevamo nel ’19, giustificando inoltre l’apparizione della « Ronda » con l’onesto desiderio di conoscere fino a qual punto le nostre idee potessero essere condivise dal pubblico. Avevamo dunque delle idee, noi rondisti. Non eravamo soltanto un’accolta di letterati e di artisti più o meno brillanti. Né intendemmo costituire un’accademia, un cenacolo, dar vita ad una delle solite pubblicazioni che nascono e muoiono senza lasciar traccia. A dispetto di ogni differenza di stile e di temperamento, qualche cosa ci univa e ci unisce tuttora; non foss’altro, la disgrazia di aver fondato la « Ronda ». Ed è inutile approfittare dei nostri contrasti per ridurre l’insegnamento rondista, essenzialmente civile e storico, a una generica professione di buon gusto, a una divisa strettamente letteraria e dilettantesca. Il programma della « Ronda », se di programma si può parlare, è uno solo. Chi voglia conoscerlo sappia che esso è scritto nella presentazione già citata, è consacrato nel « Testamento letterario di Giacomo Leopardi », che noi ci demmo la pena di compilare per metterci a riparo da ogni malinteso, è lungamente chiarito e sviluppato, infine, in un libro aggiornatissimo, quantunque non dei più fortunati, che s’intitola « Parliamo dell’Italia ». Questo programma è opera mia, in gran parte, e non credo di essere immodesto se mi permetto di rivendicarne la poco invidiabile paternità, chiamando in causa direttamente me stesso. Nessuno meglio di me può essere in grado di conoscere quelli che furono e rimangono i presupposti originari della « Ronda ». Peggio per chi se li è dimenticati o non ne ha tenuto conto abbastanza.
Fatto sta che rondisti e antirondisti si equivalgono su questo punto. E ciò spiega come vi siano ancora dei giovani in Italia, giovani per modo di dire, che hanno passato la trentina da un pezzo, i quali stimano indispensabile, di tratto in tratto, scagliarsi contro di noi, senza riflettere a quel che fanno, dove vanno a parare, a quali conseguenze si espongono. Non riuscendo ad immaginare altre forme di letteratura che non siano il dramma, il romanzo, la novella, ci mettono innanzi Pirandello, Tozzi e Grazia Deledda, gli ingenui. Pretenderebbero combatterci in nome di Croce e di De Sanctis che noi abbiamo letti quando essi erano a balia e confutati coi fatti più che con le parole. Chi nega l’importanza dei suddetti autori? Non certo noi che siamo partiti proprio dalla critica romantica per arrivare a Leopardi, a proposito del quale questi giovani sono capaci di venirci a ripetere oggi il parere d’un Borgese. Tutto quello che credevamo superato e morto, risorge. Quantum mutatus ab illo...
Ma per quel che ci riguarda personalmente vorremmo sapere, una buona volta, che si vuole da noi. Amanti della nostra terra l’abbiamo esaltata e raffigurata nella nostra povera prosa. Fedeli allo spirito della nostra lingua e della nostra civiltà, abbiamo cercato di non tradire né l’una né l’altra, pure avendo assaporato, come abbiamo detto, il frutto della filosofia moderna e della coltura europea assai più che i nostri avversari non sospettino. Se tutto questo è il « puro niente », se lavorare entro i limiti o, per meglio dire, nel clima del proprio paese e della propria storia, significa non avere nessun contenuto, coloro che dimostrano così poca stima di noi dovrebbero avere il coraggio di esprimersi un po’ più chiaramente.
Vincenzo Cardarelli.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 26.05.36

Etichette:

Citazione: Vincenzo Cardarelli, “Acqua passata,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2277.