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Titolo: Scapigliatura del novecento

Autore: Leonida Rèpaci

Data: 1936-06-26

Identificatore: 1936_62

Testo: Scapigliatura
del novecento
Nel dopoguerra, e per sei sette anni almeno, Casa Ponzoni fu a Milano un caro piccolo porto artistico, una vaga anticipazione di Bagutta, meno festosa forse, senza sciarpe di gran ramarri e trionfali gheregheghez, ma in compenso più intima, e direi quasi fraterna.
Erano anni pieni e stravaganti, ancor troppo vicini ai disastri della guerra e ai disordini del dopoguerra per non risentirne nelle giunture. Per limitarci all’arte, poteva accadere a qualche retore di far vita da signore, e, per contro, a Tozzi Spadini e Morselli di morir di stenti in un ospedale. Eppure, povero Morselli, eran tempi buoni per il teatro. Facevan fortuna sulle nostre ribalte Andreief e Crommelink, Sarment e Bernard, Vildrac e Géraldy, e si preparavano a venire Gantillon e Kaiser, Herczeg e Molnar. Né i nostri autori eran da meno di costoro. Infatti Pirandello conquistava a poco a poco le platee, e Chiarelli Rosso di San Secondo Cavacchioli e Antonelli strabiliavano gli spettatori con le loro audaci trovate. E intanto Nina no far la stupida si avviava verso la millesima recita; La Maschera e il Volto cominciava a contare gli anni che la separavano dalla celebrazione decennale; e Rocca liberatosi animosamente dal provincialismo veneziano andava affermando un suo teatro tra l’intimista e il moralista, un teatro « impossibile » per usare un aggettivo caro a una sua commedia.
Anni in certo modo portentosi. Ma anche fuori della scena si annoveravano i prodigi.
Gli editori facevano affari d’oro, che non c’erano ancora settimanali illustrati a contentare il pubblico. Mondadori sotto la direzione di Fracchia già metteva le ali. Treves non aveva bisogno di altri T per continuare una magnifica tradizione libresca. Ceschina si preparava a lanciare Bacchelli; e Corbaccio: Vergani e Campanile.
L’Alpes insisteva su Appelius e sulla collezione dei grandi navigatori, che oggi giace sulle bancarelle pur restando tra le migliori imprese editoriali del dopoguerra.
Decaduti molti celebri locali diurni e notturni, scomparso, o fatto fioco, il piccolo ma vivace mondo taverniero caro agli artisti, l’apertissima casa di Alfredo Ponzoni ricevette il meglio della scapigliatura milanese e forestiera di allora. Alfredo era (ed è tuttora grazie a Dio, giacché pur con un rene solo sta benissimo e solo rimpiange che la macina del tempo abbia distrutto la bella sodalità della sua casa) era un industriale che aveva fatto i quattrini durante la guerra. Si diceva che negli affari fosse nutrito di midolla di leone. Certo si è che era l’uomo più generoso della terra nella vita privata. Chi della nostra compagnia non venne aiutato, e con ogni mezzo, da lui, alzi la mano. Silenzio nelle file, sfido. La sua casa piena di bei quadri e di mobili rari era veramente di tutti, e non solo degli amici intimi ma degli amici degl’intimi. Non esagero dicendo che si potrebbero contare sulle dita gli artisti di allora che non passarono almeno una sera gioconda nelle accoglienti sale di via Principe Umberto I. Naturalmente c’erano i compagnoni del cuore, gl’insostituibili, quelli ai quali veniva data addirittura la chiave di casa, quelli per i quali, se le cose fossero andate sempre bene, Alfredo avrebbe preparato una crociera in Oriente. Ed era uomo da mantener la promessa, Ponzoni.
Io dividevo il privilegio della chiave con Chiarelli, Serretta, Fracchia, il colonnello Ercole, il dottor Forlì e quel pazzerellone del Negroni. Rocca, Crespi, Bazzi, l’ingegner Ciampi, l’avvocato Ticozzi, il povero avvocato Clerici, Cappelletti, erano anche loro amiconi, ma avevano le chiavi famose solo di quando in quando. Non era raro che qualche notte uscendo da teatro o dal Savini ci si spingesse fin da Alfredo per fargli un salutino. Magari l’amico era già a letto con la famiglia ma per così poco noi non ci davamo per vinti, ché conoscevamo tutti i ripostigli della casa e sapevamo dove scovare le migliori bottiglie e i più saporiti salamini brianzoli. Dolci e frutta si fronteggiavano in vassoi d’argento ai lati di una monumentale alzata, e quelli bastava allungare la mano per prenderli. Si continuava a bere, a mangiare e a discutere fino all’alba.
Si discuteva in casa Ponzoni per ore ed ore, si discuteva di politica e di letteratura non trovandoci mai d’accordo neppure per sbaglio.
Ogni avvenimento artistico che toccasse da vicino la comitiva, che so io l’uscita di un libro, l’articolo elogiativo del gran critico, il successo di una commedia, la nascita di una rivista, la richiesta dall’estero di un romanzo o di un’opera teatrale, tutto ciò insomma che costituiva la ragione della nostra vita, trovava la sua festosa risonanza in casa Ponzoni. Ed erano mangiate solenni bagnate da rivi di vino schietto e drogate da discussioni micidiali che tuttavia lasciavano le cose al punto di prima.
In questo modo furono festeggiate alcune delle più applaudite commedie di Chiarelli, di Rocca e di Serretta, la nascita della bella rivista di M. Maria Martini, l'Angela di Fracchia, il mio Ultimo Cireneo e tante e tante altre opere che affrontavano via via la dura prova del tempo. Che rimane di tutto ciò se non un mucchietto di cenere? E, ahimè, di taluni non solo le opere sono oggi ingiustamente velate fino a sembrare non nate. Alcuni, come il povero Fracchia, se ne sono andati prima del tempo, lasciando dietro di sé un profumo di cose non dette e di celati abbandoni. Gli altri son vivi ma dispersi, e non sanno neppur ritrovare la via della loro culla.
Leonida Rèpaci.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 26.06.36

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Citazione: Leonida Rèpaci, “Scapigliatura del novecento,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2278.