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Titolo: Ricordo di Grazia Deledda

Autore: Nicola Moscardelli

Data: 1936-09-04

Identificatore: 1936_78

Testo: Ricordo di Grazia Deledda
Erano gli anni della guerra mondiale: un sottotenente che aveva scritto, pochi mesi prima che la guerra scoppiasse, dei versi che avevano incontrato un certo favore, giaceva, come tanti altri, ferito in un ospedale romano. Gli amici che andavano a visitarlo erano tutti, chi più chi meno, giovani: di passaggio, in attesa di partire, o inabili alle fatiche di guerra. Ed erano tutti, chi più chi meno, della riva sinistra dell’arte.
Un giorno al posto dove erano soliti sedere quei visitatori, una ben altra figura apparve. Era una signora di cui prima di tutto colpiva la severità e la luce del volto, Era venuta, semplicemente, a visitare il ferito, avendo saputo da un giovanissimo pittore, Enrico Prampolini, della sua presenza.
Quella signora era Grazia Deledda.
Sono atti che non si dimenticano e che ci dicono sul conto di una persona assai più di lunghi discorsi.
Dopo d’allora, quante volte quel sottotenente, ormai non più tale, finita la guerra, varcò il cancello del giardino della scrittrice, la soglia della sua casa fra il verde! Indimenticabili ore, il cui ricordo è un balsamo che permette di sopportare poi tutte le altre, l’acqua di fonte che poi permette di sopportare e il deserto e la sete.
*
Il carattere fondamentale della vita e dell’arte di Grazia Deledda era, è la soppressione radicale della messa in scena.
L’uomo è, per natura, un attore, ed ama recitare e veder recitare. Recitare, nel suo linguaggio, vuol dire circondare di fumo un pezzettino d’arrosto: quando l’arrosto c’è, perché può darsi il caso che ci sia solo il fumo. Tanto più l’uomo è piccolo, mediocre, provvisorio, tanto più egli ama darsi delle arie (recitare) e circondarsi di un apparato che deve servire agli occhi dell’altro uomo (spettatore) a dargli l’impressione di trovarsi dinanzi ad un essere di eccezionale valore. Tutta la vita è fondata su questo reciproco inganno. Il giorno in cui viene sulla terra un uomo che non recita, che non è il regista di se stesso, dalla platea si leva un grido: è uno sciocco! Ma guardateli bene in viso quelli che così gridano: hanno proprio tutti i caratteri dell’uomo sciocco.
L’uomo d’alta montagna, che cioè ha veduto il fondo delle cose in un’aria d’assoluto, non può sopportare messa in scena, né può recitare. Tutto in lui è vita genuina, sorgente d’acqua viva: le soprastrutture, il fumo, cadono dinanzi ai suoi occhi come la nebbia si dissolve dinanzi al sole.
A parole, non c’è uomo per poco uscito fuor dall’anonimato della folla, che non dica di essere semplice, naturale. A fatti, solo l’uno per mille di essi sa ritrovare la vivida forza della semplicità: il restante si guarda allo specchio ed incomincia a volervi far sentire l’alone della propria presenza facendovi fare mezz’ora di anticamera. Disgraziatamente quando lasciate quelle eccelse dimore vi accorgete che il tempo più interessante è proprio quello che avete passato in anticamera.
Nello spirito, e posso dire anche nella casa di Grazia Deledda non c’erano anticamere. Essa non recitava, viveva: con una naturalezza e semplicità che erano un vero dono, come l’arte. E si comprende bene, come, all’indomani del Premio Nobel, i giornalisti che invasero quella casa solitaria si meravigliassero e non credessero ai propri occhi trovandosi in una stanza mobiliata francescanamente, con alcune figure in costume sardo in alto alle pareti, e con un tavolinetto da studentessa di ginnasio accanto alla finestra. E niente altro. Cioè, l’altro era Grazia Deledda. Negli studi artistici, pieni di arte, traboccanti di arte, l’altro, spesso, è un qualunque imbrattacarte.
Tutto era vivo e naturale in lei. Con le radici del suo spirito affondava ancora e sempre nella terra della sua isola, in una realtà di cui le soprastrutture della vita cittadina non le avevano tolta la memoria. Quella semplicità severa, serena, di terra governava il ritmo della sua arie e della sua vita. La musa della schiettezza era la sovrana nel suo spirito e nella sua casa.
Qualcuno, in buona o in mala fede, ha potuto credere che il suo riserbo fosse orgoglio: già, in un posto dove tutti bevono cognac chi beve acqua fresca diventa un provocatore.
Ma se Grazia Deledda non interveniva, non partecipava, non assisteva, non era in palco, non era notata fra le presenti, non era nel
grande albergo sul mare, non giocava a poker nel grande albergo in montagna; se, insomma, essa non faceva nessuna delle tante cose che tanti atri e tante altre fanno, ciò era perché essa credeva che pensare ad una famiglia ed all’arte non sono due imprese che si possano prendere a gabbo. Ed essa era madre tanto quanto scrittrice: legata, cioè, ai suoi figli quanto alle sue creazioni di artista.
Tuttavia, come errerebbe chi se la figurasse una triste e monotona persona. Coloro che recitano sono sempre coturnati: ma chi vive sa a tempo e luogo essere gaio, e sorridere delle cose di cui bisogna sorridere.
Tutte queste qualità confluivano, poi, nella sua arte. I suoi romanzi e racconti sono scritti in una prosa color d’oro color d’uva matura, che dimostra quanto fosse vivo nella scrittrice il senso del peso delle parole, e il senso dell’armonia del discorso. Prosa ricca, piena di umore, non arida pigna, ma grappolo fulvo. Quelle parole sono nutrite dalla terra di Barbagia, così come chi le ha scritte sentiva ancora sotto il suo passo la terra viva, la zolla feconda. Quanta luce in quegli scritti! E quanta solennità quotidiana, naturale come l’aria. Gli è che Grazia Deledda era una persona viva, frammezzo a tante persone che fingono d’essere vive: e come nei suoi scritti non c’è mai la pagina stracca, la pagina scritta senza amore, così nella sua vita non c’era la freddezza dell’abitudine, la sacrilega predisposizione a non interessarsi di nulla all’infuori di ciò che direttamente tocca; ma al contrario essa era sempre in ascolto delle voci della vita, e di tutto era curiosa perché tutto è figlio, foglia fiore o frutto, del grande albero della vita. E sorrideva a ciò che nasceva, non si chiudeva nelle negazioni di coloro che credono che il mondo nacque con loro e con loro finirà. Aveva fede nel futuro quanta ne aveva nel passato e nel presente, tre momenti della stessa corrente. Come avrebbe potuto, al contrario, essere quel poeta che era?
Se n’è andata con lo stesso stile col quale aveva vissuto. E, ripensando alla sua sanità, sembra impossibile: ed è forse impossibile. Chi è stato davvero presente una volta sarà sempre presente. Semel vivus, semper vivus.
Nicola Moscardelli.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 04.09.36

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Citazione: Nicola Moscardelli, “Ricordo di Grazia Deledda,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2294.