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Titolo: Saggi di poesia civile

Autore: Giuseppe Ravegnani

Data: 1936-10-02

Identificatore: 1936_85

Testo: Saggi
di poesia civile
Da vari anni, a proposito di letteratura contemporanea, noi sosteniamo l’esistenza di un nuovo e sano realismo (da non confondersi con il realismo fine ottocento), frutto di più cose, ma soprattutto di una riconquistata e rinnovata umanità.
Ora, codesta humanitas, espressa che sia in prosa (romanzo, racconto, favola, saggio, diario), facile è riconoscerla, comunque essa vibri in maggiore o minore intensità e profondità; più difficile invece, o per lo meno assai più complesso, sentirne l’autentica voce entro la poesia. Di più, se noi osiamo parlare di poesia civile, cioè di una materia letteraria quanto mai riducibile a orecchiabili toni, a luoghi comuni e a parole abusate, il discorso, o nostro o di altri, può smarrirsi in regioni disorientate, traditrici e sensibilissime agli equivoci, scontrandoci noi contro quelle varie abitudini mentali, che, abbarbicatesi se non altro per pigrizia, si presentano pressoché insuperabili.
Tuttavia, anche se così è, crediamo sia bene, e giusto, il richiamarci oggi, pur con serena e obbiettiva discretezza, a una giovane poesia civile, che, senza abdicare alla riconquistata essenzialità o comunque ai gusti e spiriti nuovi, sta rivelandosi, nei suoi saggi migliori e più suggestivi, sostanziata appunto di quel realismo, che, a nostro parere, si può considerare come la caratteristica intima e decifrabile del tempo nostro. E poiché il primo e autentico segno qualitativo dell’odierna poesia è quello di una pura adesione alla schiettezza (leggi: sincerità, modestia, semplicità, pacata grazia, ecc. ) interna ed esterna, è naturale che anche una poesia civile, sia perché differenziata dalla poesia ottocentesca (Carducci e D’Annunzio compresi), sia perché consapevole del proprio destino morale ed espressivo, s’impegni a costruirsi sopra un piano di gelosa soggettività, liberandosi sempre più da ogni pesante e scolorita amplificazione rettorica ed eloquente.
Risorge in tal modo la tradizione. Questa è per noi consapevolezza, coscienza, e insieme diuturno ricominciamento. Infatti, si voglia o no, tutta la poesia contemporanea — e non soltanto la poesia — si muove sopra accenti ed evocazioni di linea classica, rinfrescati da una luce di austerità, vivissima in noi anche se sembra perdersi nel tempo, sino cioè alle origini stesse della nostra poesia. Si dice, almeno per bocca di certi parziali critici — tipico esempio: il Galletti —, che il molto di nuovo e di favoloso, che la poesia contemporanea porta in sé, sia nato e alimentato soprattutto da contatti estranei: e qui, spesso citati fuor di luogo, si fanno i soliti e strapazzatissimi nomi (Rimbaud. Mallarmé, Valéry). Al contrario, non mai come oggi la nostra poesia (Ungaretti, Saba, Montale, Vigolo, Quasimodo), pur con gli accrescimenti naturali e logici, ha bisogno, per essere veramente intesa, di riportarsi entro l’aura dei secoli, onde riallacciare quei sottilissimi legami spirituali, che sempre avvicinano le opere d’arte, anche le più lontane, nonché le varie epoche e civiltà.
Naturalmente, una poesia civile che non sia eloquenza e amplificazione rettorica, e quindi non si appesantisca di elementi extralirici e celebrativi — se così non fosse, o per abito mentale, o per gusto, o infine per una malamente intesa attualità, si ricadrebbe in devastate zone oratorie —, non può che germogliare « in profondità »: cioè da nette e prepotenti individualità poetiche. E tali infatti furono quelle che di solito esemplano le storie letterarie: da Dante al Foscolo, dal Petrarca al Leopardi. Ma anche i celeberrimi passi di codesti poeti — « Ahi, serva Italia, di dolore ostello... », « Vieni a veder la tua Roma, che piagne... », « Tu te n’andrai, Canzone, ardita e fera... », « Italia mia, benché il parlar sia indarno... », « Te nudrice alle Muse, ospite e Dea... », «O patria mia, vedo le mura e gli archi... » — hanno valore di poesia in sé, e non soltanto un mero valore, contingente e particolare, di arte patriottica o politica.
Così, qualora si volesse scrivere una vera storia della nostra poesia civile, dal trecento ai novecento, o comporre opera antologica, altrettanto noi ripeteremmo per i minori: un Fazio degli Uberti, un Chiabrera, un Rosa, un Filicaia, un Metastasio, i quali, pur non possedendo la plenitudine lirica dei maggiori, né la loro personalità provveduta e intransigente, sfuggono ugualmente a intenzioni o pratiche o declamatone. Cose, queste, che saltano sùbito agli occhi, allorché si legga Prati o Marradi, Fusinato o Panzacchi, Tommaseo o Pittèri.
Ora, come corollario, richiamiamoci a Garibaldi. Il quale, o per leggenda o per verità, si dice che esclamasse, a proposito del Mercantini, che: «Buona parte di questa Italia si deve ai poeti ». Verissimo. Né siamo noi tra quelli che negano la funzione altissima dei poeti nella vita nazionale. Tuttavia, se si fa storia di poesia, è da vedersi dove e come codesta poesia esista, e quanto essa, come tale, superi il tempo. Quale critico, o disarmato lettore, si entusiasmerebbe al « Venturo Pontefice » dell’Aleardi: « Arsi dal Sol le fronti, — Con l’arme in pugno, con le piume al vento, — Di polve e fumo, di sudor, di sangue — Superbamente immondi, — Ebbri di gloria, scendere giocondi — Sposi della vittoria... »? Oppure ai sonetti bersagliereschi del Bosi:
« Ch’io, col fiammante fez sovra la nuca, — vi vegga, bei papaveri fiorenti, — scavar nel suolo una profonda buca, ecc. ecc. »?
Illuminato così quanto ci allontana da una poesia così fatta e caracollante sopra la più smaccata faciloneria prosodica, — al di sopra di essa, e in una storia civile della nostra terra, gli uomini, ben s'intende, furono esemplari e provvidi —, non può far meraviglia «e, in fatto d’arte e di poesia, noi siamo perfettamente d’accordo con Bontempelli, allorché scrive (al soliti spunti ») che « la grande arte politica, l’arte aderente, non è stata mai arte di propaganda o celebrativa che dir si voglia ». Non è stata, né mai lo sarà: ché l’arte politica, quando è davvero arte, o grande o piccina, è anzi tutto alto e purissimo sentimento, e non rettorica: realtà nuda e immediata, e non eloquenza.
Oggi, tale realtà nuda si esprime attraverso quei poeti che certi critici (Flora) hanno il vezzo, o la malignità, di chiamare ancora puri ed ermetici. Inutili e vuote e dannose definizioni. Puri o non puri, importa che ci sia l’arte, la poesia; e basta. Ogni altra parola, ogni altro codicillo definitorio non è che uno sterile giuoco dialettico.
Ad ogni modo, per meglio intenderci, affermeremo ch’è proprio da codesti poeti così detti puri che una nuova poesia civile è realizzata, davvero aderendo allo spirito realistico e umano del nostro clima politico. Cioè in poeti quanto mai risentiti, intensi, raccolti, per i quali la poesia è esclusivamente confessione di sé, fatto personale, fondamentale e assoluta misura interiore, e non belluria vocabolaristica, a gote gonfie. E tale poesia, si può dire, è nata con « Italia » di Ungaretti, ch’è del 1916, e fa parte di « Il porto sepolto ». D’allora, con il passare del tempo, la trasformazione spirituale ha inciso sempre più il gusto, i modi, le ragioni del poetare. E codeste ragioni coincidono con le ragioni del clima in cui viviamo: con le ragioni cioè della nostra epoca.
Dunque, poeti puri, poeti nuovi. Ma è ovvio, come taluni fanno, insistere sopra certe cadenze, certe secchezze, certe stringatezze espressive, che sono comuni agli uni e agli altri, ma dagli uni e dagli altri variamente elaborate. Son cose che circolano nell’aria da quasi vent’anni: ed è segno appunto di una nuova civiltà letteraria, la quale ha nome « novecento » Piuttosto è meglio superare le prevenzioni, e toccar fondo, e vedere quanto e come codesta poesia civile corrisponda ai nostri spiriti, alla nostra umana verità, e sia parimenti viva in sé, come poesia e come arte. Tutto ciò, obbiettivamente, noi crediamo sia nell’opera di alcuni poeti, e specialmente in quella di Renzo Laurano, di Adriano Grande, di Aldo Capasso e di Tullio Didero. Infatti a chi legga « Alla pioggia e al sole » di Grande (Carabba, 1936), o « Cantano i giovani fascisti » di Capasso (Emiliano degli Orfini, 1936), o i « Poemetti fascisti » di Didero (Emiliano degli Orfini, 1936), rintraccerà parole povere, sentimenti puliti, atteggiamenti concreti, in un’aria di lucida grazia. E a mostrar ciò, ch’è il dono più bello di questa poesia, bastano pochi esempi, appigli di citazioni: « È questa una stagione colma di odor marino — e di guerra. Laggiù, ragazzi già combattono... » (Capasso), « Da una terra ove dorme un paesaggio — d’alberi e d’acque — al rullo dei tamburi ci levammo — come da un sonno... » (Didero), « Vivere non è forse, — o Patria, — che aspettare e aspettare: — aspettare pazienti, — l’ora del pane, l’ora — di gioia, l’ora del riposo: — e l’ora, a pochi in sorte, della gloria... » (Grande).
Per chi voglia, i raffronti con certe strombettature (« Va, combatti; e ne’ perigli — Pensa, o caro, al dì remoto, ecc. ecc. ») possono essere sommamente salutari.
Giuseppe Ravegnani.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 02.10.36

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Citazione: Giuseppe Ravegnani, “Saggi di poesia civile,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2301.