I purosangue non sono ammessi alla corsa (dettagli)
Titolo: I purosangue non sono ammessi alla corsa
Autore: Paolo Cesarini
Data: 1938-11-02
Identificatore: 1937-38_41
Testo:
TOSCANA MINORE
I purisangue
non sono ammessi alla corsa
La contadinella si scopre nel cuore una grande passione e le si abbandona - Fantini e cavalli delle feste campagnole - Finisce senza emozioni il viaggio in diligenza
Buonconvento, ottobre
Sbaglierebbe di molto chi credesse la Vittoria una donna fatta, o anche soltanto una ragazza da marito, dal modo sicuro con cui aveva iniziato a discorrere o dal fatto che il bambino venuto a farci ritardare la partenza l’avesse annunziata semplicemente come Vittoria e questo fosse bastato ai vetturali per aspettarla; Vittoria avrà avuto, al massimo, dodici anni, ma c’era tutta e forse anche più del necessario.
Ci eravamo dunque appena mossi che lei, mentre aggiustava fra le gambe dei passeggeri due panieri pieni di patate, aveva già domandato a Gino, ma indirettamente a tutti, se era stato alla festa di Monteroni. Poi rubò di bocca la parola al vetturale che rimase su un: si c’ero anch’io, e iniziò una rievocazione appassionatissima di questo memorabile avvenimento.
Cose mai viste
Confesso che rimasi sorpreso a sentire quella contadinella, asciutta, biondiccia, con gli occhi verdi-azzurri promuovere discussioni fra i grandi e riuscire poi con le sue parole a mantenere una specie di presidenza nel circolo.
La bambina era stata alla festa a Monteroni d’Arbia la domenica avanti e n’era rimasta strabiliata.
— Una cosa mai vista — diceva, e la nonnina, che forse avrebbe voluto mitigare il giudizio, lei che tante ne aveva viste di tali feste, si agitava un poco nel suo posticino accanto a me e spingeva la mano gialla e dura nei vuoto come per parlare; poi rientrava senza far critiche. Una volta che trovò la forza per farsi intendere e disse: — Ai miei tempi i fuochi si facevano con le stoppie —, si ebbe da Vittoria un’occhiata di tanta indescrivibile commiserazione che più non osò aprir bocca. Ma non rimase offesa; ridacchiava da sola seguendo attentissima la bambina.
Ci dovevano essere state in casa di Vittoria chiacchiere per una settimana o due o un mese riguardo a questa festa da vedere e la piccola aveva imparato a parlarne prima ancora di assistervi. Non so che sogni avrà potuto fare su quella domenica che si annunziava così straordinaria. Avrà pensato al vestitino nuovo, alle scarpette, ai banchi di dolciumi, alla processione, ai festoni di carte colorate da una casa all’altra, alla musica; a che altro ancora poteva aver pensato il cervellino dodicenne di una piccola guardiana di oche?
Forse tutta la sua contenuta speranza era stata per i cannelli di zucchero filato e il suo segreto batticuore per la gran folla festante, nella strada larga fra la chiesa addobbata di velluti rossi e la fine del paese col distributore di benzina azzurro. Invece aveva avuto una rivelazione; ed io mi sentii portato dentro i suoi discorsi e le sue idee, senza accorgermene, con un calore che mi turbava il sangue. Perchè alla festa di Monteroni, Vittoria pareva non aver visto che la corsa dei cavalli.
— Sei cavalli c’erano. Ha vinto lo Storno del Pianigiani. Io ero con la mia cugina alla svolta e si vedeva proprio bene. Uno di Siena diceva che lo Storno ha vinto un monte di Palii, ma che ormai comincia a invecchiare. Invece andava via come un pulledro. Voi l’aveste veduto! Io ero alla svolta; prima è passato lo Storno raso raso all’albero e il fantino, non so come si chiami, gli si era buttato tutto sulla groppa con la testa dietro il collo, così. Proprio bene ecco, perchè quella svolta è brutta.
Umori di razza
Soltanto io non avevo visto la corsa, gli altri si e tutti avevano qualche particolare da aggiungere; ma ne parlarono dopo, con calma. Ora si stava incantati a sentire Vittoria e nessuno forse pensò che quei discorsi infiammati, quella rivelazione misteriosa di una gioia tanto piena ognuno di noi l’aveva avuta, come la bambina, un giorno lontano. Si stava sorridenti ad ascoltare la contadinella alla quale la gara, il parteggiare, l’euforia del successo avevano svegliato nelle piccole vene gli spiriti battaglieri che sonnecchiano nel sangue di tutta la gente senese.
Aveva sognato i cannelli di zucchero filato da succhiare beatamente e poi s’era ritrovata a morderli con disperata furia, a dimenticarseli fra le mani contratte, a lanciarli inconsciamente per aria nell’urlo di vittoria.
Il sole aveva sciolto tutte le nebbie e asciugato l’asfalto; ma i campi erano ancora nerastri d’umido e i bovi che tiravano l’aratro alzavano gli zoccoli con grandi piote di terra. Passando per una frazione, un ragazzo ci seguì per un poco, patinando sventatamente intorno alla diligenza. Il cavallo non se ne dava per inteso; ma Gino brontolava: — Una volta o l’altra finisce sotto — e le donne, quando il ragazzo anelante, coi riccioli neri rovesciati sugli occhi, si attaccava allo sportello di dietro, lo ammonivano: — Stai attento nino, se caschi ti rovini —. Ma lui rideva: — Che sarà mai! Paurose, pensate ai fatti vostri.
— E te pensa alla tua testa. Mirate che bernoccolo ha sulla fronte.
— Quello glielo ha fatto Ernesto — informò con qualche malignità Vittoria.
— Anche lui però ha avuto la sua parte — rispose, subito arrabbiato, il ragazzo e con un giro largo attraverso la strada si allontanò buttando il corpo sguaiatamente in qua e in là.
— Deve essere un tipetto quello.
— Altroché. È un prepotentaccio. Figuratevi che ieri per stare più comodo alla corsa ha buttalo giù dalla scarpata un bambino. E come faceva il gradasso quando Ernesto gli ha detto che quelli non erano modi! Gli sembrava d’avere ragione. Sicché se le sono date nel campo e hanno rotto una vite. Ma non è vero che Ernesto ne abbia buscate, perchè quando il Cortecci, che correva sul cavallo del Neri, ha girato troppo stretto e ha battuto nell’albero, lui era proprio accanto a me e ho visto bene che non aveva nessun marchio. Uh, ma Signore che spavento —. E Vittoria riprese a raccontare gli episodi della corsa: di quando, appunto, per aver preso la svolta stretta il fantino fu scavalcato e il cavallo seguitò da solo fino al traguardo, e di un’altra bestia che pensò bene di non voltare affatto e andò a correre per i campi.
Agonali paesani
Che cos’era stato poi in fondo questo palio paesano? Io non avevo visto proprio quello in questione; ma molti altri, in altri borghi rurali, sotto lo stesso cielo; so di che si tratta.
C’è una strada fra i campi e le case rade, bruciata dal sole e la folla vi si addensa coprendosi di polvere bianca le scarpe domenicali, arrossandosi le facce di sudore. La corsa è fatta a batterie di due o tre cavalli per volta. I fantini, con giubbetti di colori vivaci, montano a pelo, alla fiera maniera maremmana, stringendo fra le gambe arcuate cavalli lavoratori: bestie solite al traino del calesse e uomini usi a ripetere questa avventurosa prova, fra il consueto compito di guidar carrozze cittadine o quello più movimentato di andar per le fiere mercanteggiando cavalli.
Partono senza bisogno di nastri o di pistole, corrono fra la gente che s’apre appena per farli passare e si richiude dietro incitandoli; il rumore del galoppo si perde nel vociare e sulla folla trasvolano i giubbetti e le criniere impetuose verso un termine tradizionale. Una querce, un cipresso, una croce o una cappella sono alla fine della corsa; qui si grida più alto, mentre i fantini scivolano dalle groppe sudate e già un’altra batteria infiamma la genie.
Breve la festa, ma lunghissima l'eco di cento saporiti episodi. Intanto ecco qui la notizia che quel cavallo che non aveva voluto sapere di voltare e se ne era andato a diritto per i campi, l’aveva comprato il vetturale.
— Oh che fate Gino? Vi pare una bestia da attaccare? Vi porterà subito in un fosso.
— Sbagliano tutti e posso sbagliare anch’io — rispose Gino da cassetta, girando la testa verso noi. — Ma il cavallo non l’ho comprato. Mi era piaciuto dimolto all’aspetto, però avevo fatto i patti chiari: « Dopo la corsa, se mi fa ancora, lo prendo ». Vista quella po’ po’ di figura il suo padrone neanche si fece vedere.
Echi della festa
A Monteroni trovammo ancora qualche resto d’addobbo; dei tralci di carte rosse bianche e verdi pendevano dalle case e si poteva leggere sui manifesti il Programma religioso e il Programma civile delle feste per Maria Santissima. Leggemmo che la corsa aveva 525 lire di premi e che non vi erano ammessi i purisangue.
Il paese aveva ripreso svogliatamente i lavori, molte botteghe erano vuote e gli artigiani stavano vicino al caffè chiacchierando.
Uno, che dai capelli e dai vestiti imbiancati si capiva essere un mugnaio, venne alla diligenza per ritirare un orologio fatto accomodare a Siena e ammicando con un occhio chiuso si rivolse a Gino.
— Dammi retta. Ieri l’hai portato te Bista? — Parlava di un fantino che, a quanto avevo sentito dai discorsi dei miei compagni, era un uomo disgraziato e poverissimo.
— Si, venne in diligenza.
— Dammi retta. Che idee aveva?
— Ma, voleva correre.
— O dammi retta. Ha vinto?
— No.
— Dio dei dèi e allora che è venuto a fare; per rimetterci il viaggio?
Si misero tutti a ridere. L’ora del pranzo si avvicinava e i cavalli presero il trotto nella pianura. Due carabinieri, appoggiati alle biciclette, mangiavano dell’uva, intanto che ascoltavano un contadino seduto sul greppo del campo. Vittoria descriveva alla nonnina i giubbetti dei fantini, disegnando col dito sulla sottana stesa dalle gambe aperte, quadri, croci, strisce.
La fine del viaggio in diligenza da Siena a Buonconvento, fu senza emozioni. Ormai si era fatto caldo, il sole scottava nella pianura e sotto il tetto della carrozza ristagnava aria pesante profumata di fieno e di vestiti nuovi da contadini.
Arrivo a Buonconvento
Si era stanchi del ballonzolio uniforme e del molto parlare. Le donne stavano mute con le mani intrecciate sul grembo e guardavano senza interesse la strada nera fra le sponde verdi che si allungava dietro noi. Passando sulle verghe della ferrovia qualcuno accennò ad una vecchia disgrazia, ma l’argomento non destò interesse. La guardiana del passaggio a livello stava inginocchiata nella porta della casetta lustrando con la sabbia un fanale d’ottone. Una servetta con il grembiule e la crestina bianca passeggiava sotto i grandi alberi spingendo un carrozzino da bambini.
— Ci sono ancora i signori a villeggiare — mormorò Vittoria; ma le sue parole furono accolte come una constatazione ovvia e nessuno aggiunse altro.
Vicinissimi al paese si sveltì l’andatura. Passammo per il parco delle rimembranze ed entrammo nella via principale di Buonconvento, come dentro un lungo corridoio, riempiendola del nostro fracasso.
Paolo Cesarini
Collezione: Diorama 02.11.38
Etichette: Fuori Diorama, Paolo Cesarini
Citazione: Paolo Cesarini, “I purosangue non sono ammessi alla corsa,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2360.