Della letteratura coloniale (dettagli)
Titolo: Della letteratura coloniale
Autore: Adriano Grande
Data: 1938-11-16
Identificatore: 1937-38_50
Testo:
Della letteratura coloniale
Quanto influiscano il clima, il paesaggio e le sue suggestioni, la gente nuova con la sua mentalità e i suoi diversi costumi, sulla psicologia dell’uomo — e quindi anche dello scrittore — è problema che, allargandosi, può portare a problemi base; per esempio a quello della formazione e trasformazione della personalità umana. E per affermare che una letteratura coloniale non può nascere da un viaggio in Africa — sia pure un viaggio guerresco — ma ha bisogno che gli eventuali autori di essa facciano « in loco » soggiorni assai lunghi, vivano e patiscano, nel disagio e nell’avventura, nella novità e nella vecchiezza della colonia, quanto occorre a ben bene impressionarsene l’animo, non sono necessari riferimenti così spropositati.
I ricordi d’Africa in diario, in altra prosa bene o male organizzata, e anche in versi — di scrittori che han partecipato alla campagna d’Etiopia, oppure han fatto in Africa il solito viaggio giornalistico convogliati e difesi da una mentalità preformata — non costituiscono per certo una letteratura coloniale. Ne costituiscono, al massimo, con molt’altra produzione scritta, l’anticamera più o meno necessaria. Una buona letteratura coloniale nostra — dal punto di vista esclusivamente artistico — non potrà formarsi vigorosa ed efficace, secondo me, che a colonizzazione assai avanzata; pur non escludendo che a vocazioni e temperamenti dotati possa bastare una scampagnata sulle dune o le Ambe, per le sabbie e le oasi, in riva ai laghi o nelle boscaglie, per tornarsene a casa col capolavoro nelle tasche della sahariana.
Non so perciò, anche perché ignoro la durata e le condizioni precise dell’esperimento, quali frutti positivi potrà dare l’iniziativa (tuttavia interessante e che vale bene la pena di seguire) di far andare in Etiopia un gruppetto di scrittori col preciso incarico di scrivere libri sull’Impero. Non ne venissero fuori che dei buoni studi economici e sociali, delle raccolte di buona informazione giornalistica, l’iniziativa sarebbe premiata e giustificata: e questo limite modesto si può confidare che verrà raggiunto. Ma, quanto all’arte, non mi vuole uscir dalla testa che Kipling è nato a Bombay e ha vissuto in India parecchio tempo.
Non mi serve contrappormi da me stesso che probabilmente Simenon — il quale ha clinicamente descritto in un suo romanzo il più solenne caso di « insabbiamento », cioè di decadimento da uomo europeo, che si possa descrivere — non avrà fatto per il canale di Panama, seppure c’è stato, che un fugace transito. Neanche mi serve contrappormi che gli illustri colonialisti, esploratori e missionari, italiani del passato, han mirato assai poco all’arte — salvo rare eccezioni e non tali da creare una letteratura — preoccupati soprattutto e giustamente di questioni geografiche, etnografiche, sociali e politiche nella loro specifica accezione.
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Rispetto al suo contenuto psicologico mi pare che l’arte letteraria coloniale si potrebbe suddividere in due larghe tendenze: e una è quella che tira a interpretare e romanzare l’anima e il costume indigeni. Dai recenti nostri scrittori coloniali, mossi inconsciamente dal desiderio del nuovo — che è poi vecchissimo perché è questo il genere in cui esistono floride letterature straniere — ciò è stato in parte tentato, con risultati che odoran d’artefatto lontano un miglio. L’altra possibile tendenza è quella che potrebbe drammatizzare o romanzare o cantare gli effetti del trapianto in colonia sull’animo e la mente dell’europeo; nel caso preciso dell’italiano.
Andrebbero a questa tendenza — della quale vedo assai pochi segni — le mie ragionate simpatie. Toccasse a me, « creare » degli scrittori coloniali, li cercherei piuttosto nella vita che nella professione delle lettere. Affiderei l’incarico di scrivere romanzi novelle e anche poemi sulla nostra Africa e sugli italiani in Africa a vecchi funzionari che han lungamente vissuto nelle prime colonie, oppure agli operai, agli imprenditori, ai professionisti, ai piccoli commercianti che han cominciato ad affluire nell’Impero subito dopo la conquista. So bene che mi pongo davanti una prospettiva sbagliata; che la gente ch’io dico di tutto si preoccupa meno che di letteratura; che gli scrittori non s’improvvisano: appunto per questo ho parlato di « creare ». Voglio, insomma, soltanto ripetere « ad abundantiam » che, per descrivere e trasferire in arte l’esperienza umana degli italiani che in colonia lottano con una natura da vincere e trasformare, con un nuovo mondo a cui conformarsi o da conformare a sé, è necessario campare quotidianamente, a gomito a gomito, con essi, prendere parte attiva alle loro vicende. Ma è, poi, questo, un fare della letteratura coloniale? Non sarà, piuttosto, un fare senz’altro della letteratura?
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Quanto c’è in Kipling, nato in India, di mentalità inglese ed europea, è proprio quel tanto che gli ha consentito di assumere l’India a materiale della propria arte. Quanto c’è in Pearl Buck di nord-americano e di europeo è proprio quello che le ha consentito di raccontarci la Cina. Pearl Buck ci ha dato una Cina assai più credibile, oggettivamente, di quanto spesso sia credibile l’India di Kipling; eppure Kipling è artista assai più importante, le sue opere hanno maggior poesia dei realistici romanzi della Buck.
Non dipende, questa diversità di vigor poetico, dalla diversa posizione formale dei due scrittori. Dipende da una posizione psicologica, da una differente statura fantastica. Kipling, quando ha superato la sua natura europea, ha superato anche l’India: è entrato in pieno nell’atmosfera della poesia. Pearl Buck, preoccupata di darci una Cina che sia proprio la Cina come potrebbe sentirla un cinese, è rimasta storicistica, europea: artisticamente un po’ al di fuori, un poco ancora dilettante. Lo stesso genere di dilettantismo che mostra Flaubert in Salambò, romanzo che ubbidisce al gusto dell’esotico; come oggi tutte le ricostruzioni storiche, ed orientali moderne, del cinematografo. Per convincersene non c’è che da paragonare questo romanzo ai romanzi europei — anzi, spiccatamente francesi — di Flaubert.
Chi si mette a tradurre in arte l’animo e i pensieri di gente morta da secoli, o di gente d’una razza diversa dalla propria, sfocia sempre, per quanto sia grande la sua penetrazione psicologica e la sua forza di fantasia, in un dilettantismo di codesta specie. Nulla di male, quando si tratta di un dilettantismo superiore, come quello degli scrittori che ho citato.
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C’è un punto in cui il genere « coloniale » si confonde con il genere « viaggi ». Stevenson, Conrad, London, son considerati soprattutto scrittori di viaggi; eppure, bene spesso, son scrittori coloniali. Ma l’uomo che interessa codesti scrittori, anche quando ha veste di lupo o di negro, è l’uomo europeo. Persino Faulkner, studiando i meticci, i protestanti e i delinquenti, o semplicemente i contadini, del Nordamerica, è scrittore coloniale; ma rimane uno studioso dell’uomo europeo, con i suoi tradizionali problemi dinanzi alla società, alla ricchezza, al fato: e infine a Dio.
Noi non manchiamo di qualche buon scrittore di viaggi: e più ne avremo col tempo. E se una letteratura coloniale tarderà a nascere artisticamente valida, potremo anche accontentarci d’una letteratura di viaggi: con le conquiste coloniali, verso di essa, praticamente, conduce anche il giornalismo italiano che adopera nei viaggi alcuni fra i suoi migliori letterati.
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S’è detto che Kipling quando ha superato la sua natura europea ha superato anche la materia di cui si è servito. Tutti gli artisti veri, superano, negli ultimi significati umani e sociali della loro arte, la materia di cui si servono: Verga supera la ristretta vita dei Malavoglia, De Foe la vita oscura e corrosa di Moll Flanders. Al di là del colore della pelle, al di là della condizione sociale, dell’ambiente e delle ferree indiscutibili necessità che stabiliscono la preminenza d’una razza su altre, di fronte ai minuti fatti della vita, che son quello che in arte contano insieme ai grandi fatti del destino e della morte, un uomo nel giudizio trascendente della poesia ne vale un altro.
Ma rimane pur sempre desiderabile — anche perché è più difficile impegno — l’elevazione a materia d’arte dell’uomo europeo moderno che non quella del primitivo o del decaduto. E quando tratta dell’uomo europeo, su qualunque meridiano esso si trovi, la letteratura non ha bisogno di etichette: letteratura coloniale o di viaggi e avventure, letteratura stracittadina o strapaesana, purché essa tocchi la poesia e l’umanità e chiarisca noi a noi stessi sarà sempre buona letteratura.
Adriano Grande
Collezione: Diorama 16.11.38
Etichette: Adriano Grande
Citazione: Adriano Grande, “Della letteratura coloniale,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2369.