Autobiografia poetica (dettagli)
Titolo: Autobiografia poetica
Autore: Lorenzo Gigli
Data: 1938-12-07
Identificatore: 1937-38_70
Testo:
AUTOBIOGRAFIA
POETICA
A Mario Viscardini, ingegnere di molte esperienze, uomo di numeri e di calcoli, poeta del pilone e del cemento armato, diede fama letteraria, una decina d’anni fa, un romanzo-finestra sul mondo che si svolge intorno ai casi del signor Giovannino Cerchimpicci, giovane italiano della generazione tra la fine dell’Ottocento e il conflitto europeo. Bel romanzo, complesso, ricco d’intreccio e di caratteri, solido nella linea tradizionale, e insieme d’un taglio spregiudicato e avventuroso. A questo primo romanzo tennero dietro un ciclo avveniristico e utopistico; e un libretto di versi liberi. Ma il miglior Viscardini è sempre da cercare nelle pagine di Giovannino, ultimo eroe romantico. Sebbene poi il gusto della bella architettura e l’armonia delle proporzioni si sentano in tutta l'opera narrativa del Viscardini, al quale il passato di studioso delle leggi aritmetiche e di tecnico fornisce una visione della realtà per volumi e per masse.
Lombardo d’origine, pellegrino di tutte le strade, costruttore in Africa, insegnante di lingua italiana nel nord d’Europa, insofferente degli schemi borghesi, ribelle alle consuetudini e indifferente al denaro, Mario Viscardini è un tipo umano da studiare. Un giorno, non essendo più giovane, ingegnere arrivato, con una buona clientela, un piccolo patrimonio da parte, rinunciò a tutto, alla professione, agli agi, ai conforti, chiuse lo studio, seppellì i progetti, e si volse alla poesia. Una crisi alla Gauguin, non infrequente nelle biografie degli artisti; si rompono i ponti col passato e si ricomincia a vivere sradicandosi dall’ambiente usuale e sopprimendo violentemente la tirannia dell’interesse. Codesti tipi presso la gente normale armata di buon senso pratico passano per dei puri folli da liquidare con un sorriso di pietà e con una scrollata di spalle. In realtà essi sono dei privilegiati che ripetono, in piena civiltà meccanica, il gesto medievale di Jacopone. E come lui cantano sulle ceneri del passato le laudi della bontà divina e della volontà creata.
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Oggi Viscardini si confessa.
Racconta cioè, in un aureo libretto, Occhi sereni (ed. Emiliano degli Orfini, Genova), come partendo per diletto dalla poesia sia approdato definitivamente alla poesia quale ultimo vera « Saggio d’una poetica esergata » dichiara l’autore: come dire, messa in atto, traduzione, sul terreno concreto, dei fantasmi che accompagnarono per trent’anni le sue meditazioni e le sue diverse forme d’attività. Il libretto conclude infatti con la esposizione teorica esemplificata di una così detta « poetica dell’arabesco » in cui dovrebbe identificarsi la legge della poesia pura. « Sarebbe interessante — pensava un giorno il Viscardini stando in cospetto della natura solitaria — determinare qual è il momento o quali sono le condizioni in cui un seguito di parole diventa una immagine poetica, un linguaggio lirico, capace, insomma, se non di significare un fatto, di esprimere almeno un sentimento, di comunicare un’emozione ». Questo pensiero fu il punto di partenza di svariate considerazioni, le quali condussero il Viscardini ad annotare gli spunti melodici che gli sorgevano spontanei nella mente, quasi mormorati dall’inconscio, e a connetterli, senza chiedersi a priori che cosa volessero significare, né porsi quell’esigenza, così abituale all’uomo colto e sensato, di adeguare il discorso a uno scopo ben chiaro. Ma, insieme, sorgevano le prime obiezioni, nascevano i dubbi, e con essi le ragioni di rivedere e correggere la teoria. Più avanti, il problema si presentò al poeta sotto un aspetto più concreto e definito: costruire un tappeto di immagini, cioè « una forma che, non racchiudendo alcun significato preciso, né esprimendo un contenuto emotivo determinato, desse alla lettura un semplice godimento estetico, determinato dall’armonia dei richiami, dalla collocazione delle immagini, dall’intreccio dei nessi verbali, dal ritorno di figurazioni simboliche... ». Messo su questa strada, il Viscardini cominciò a tessere i suoi tappeti, a costruire le sue architetture d’immagini, e li chiamò arabeschi e li radunò due o tre anni fa nel volume Canto folle, « accolto — egli dice — dalla più gelida indifferenza che uno scrittore dell’età mia potesse attendersi. Anche gli amici più cari lo ignorarono.. ». (Quanti siamo in colpa? )
Adesso con Occhi sereni, il Viscardini ci porge una sorta di guida spirituale attraverso la sua trentennale opera preparatoria, mostrandone gli elementi costitutivi.
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Eppure, le obiezioni alla teoria degli arabeschi permangono, sono connaturate alla loro innegabile artificiosità. Pura la fede e ammirevole l’umiltà dello scrittore; ma non è la genesi d’una poetica e la giustificazione d’una teoria che cerchiamo nella « guida »: è la sensibilità d’un poeta e il suo candore originario; e questi, sì, la illuminano, rivelano l'uomo e il suo martirio, disegnano il paradigma della sua crisi che tocca alti vertici di dramma. Occhi sereni è una confessione di figlio del secolo evasa dagli schemi romantici per avvicinarsi allo straziante « distacco » d’un Amiel. La percorre d’un capo all’altro il richiamo delle più segrete vene nostalgiche, che assumono di volta in volta fisionomie di persone cadute nell’abisso del tempo o aspetti di paesaggi raggelati nella memoria, fatti mitici dalla distanza. Si ricostruisce il curricolo d’un uomo di tanta esperienza sofferta sulla base di semplici appunti lirici che si compongono in autobiografia perfetta. Il poeta accompagna l’uomo, lo precede sui sentieri dell’esistenza, annuncia fino dall’alba un destino segnato. Ancora adolescente, il poeta dischiude gli occhi sul paese lombardo come microcosmo di idillio teocriteo. Spalanca una mattina la finestra e racconta alla vecchia domestica quel che ha veduto; il miracolo, la rivelazione:
Nunziata, questa man vid'io tal cosa schiudendo gli occhi all'alba premurosa, vidi i campi fuggir tanto lontano, sì tonda l’aria e le stelle sì chiare che sovra gli occhi mi passai la mano e novamente parvemi sognare...
La prima stagione poetica fu breve, ma è forse la più disinteressata. Le altre che seguirono vanno sotto il segno dei vari movimenti letterari d’allora, appartengono a cicli storici chiusi; e l’influenze, da D’Annunzio ai crepuscolari e a Palazzeschi, vi sono scoperte. La realtà di questo spirito nomade è rimasta custodita sotto una campana di vetro nel piccolo mondo familiare. Tornandovi, annota: « Il mio ritorno alla campagna equivaleva per me a un rimpatrio dopo un lunghissimo esilio. Avevo abbandonato la terra lombarda a ventitré anni, ci ritornavo a quaranta... ». Ma come essa gli parla ancora, come gli si abbandona! Rileggete l’esordio di Giovannino. Il romanziere inserisce nel paesaggio lombardo il « fascino slavo »; ma il paesaggio conserva sapore e colore manzoniani senza possibilità d’equivoco. Dirà, negli appunti del ritorno della maturità: « V’era certo un sentimento di riconciliazione nostalgica e di tenero amore nel mio modo di guardare le cime del pino... La mia casa era laggiù, sotto quel pino isolato... ». La sua casa! Tutta l’autobiografia di Viscardini è una storia di partenze improvvise e di lenti ritorni, di esili e di nostalgie. La sua poesia nasce da questo clima psicologico e morale. Poi, un giorno, egli sacrifica tutto alla poesia, distrugge con le sue stesse mani la possibilità del ritorno, scioglie la famiglia (in parte gliela scioglie la morte), volta le spalle alla tranquillità, alla normalità, si carica d’un sacco e percorre i continenti a piedi. Va dietro il suo sogno, obbedisce al segreto richiamo della sorte, passa di prova in prova per giungere a quella sospirata solitudine donde oggi guarda con occhi sereni le tappe della sua carriera di letterato « che s’avvia verso la fine senz’essersi mai vista intorno la grazia di un posticino di riposo o l’ombra di un soddisfatto compiacimento ». Per ora, colui che fu l’ingegnere Viscardini, personaggio importante di solide società industriali, s’è fermato a Brusselle dove, per vivere, insegna la grammatica ai bambini degli operai italiani e legge i nostri poeti agli stranieri volonterosi.
Lorenzo Gigli
Collezione: Diorama 07.12.38
Etichette: Lorenzo Gigli
Citazione: Lorenzo Gigli, “Autobiografia poetica,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2389.