Lingua italiana imperiale (dettagli)
Titolo: Lingua italiana imperiale
Autore: Giovanni Comisso
Data: 1938-12-28
Identificatore: 1937-38_93
Testo:
Lingua italiana imperiale
Leggendo le Relazioni sugli Stati Europei fatte in Senato dagli Ambasciatori veneti nel Seicento ci si stupisce per la bellezza della lingua italiana in quel periodo che non lasciò sublimi esempi tra i letterati di mestiere. Un Giovanni Sagredo ambasciatore straordinario presso Cromwell, in un’epoca nella quale i raffronti si facevano gonfi come mongolfiere scrive: «E come sopra li diroccamenti di un precipitato edifizio, si vede alle volte innalzarsene un altro più cospicuo e più magnifico del primo, così sopra le rovine della casa reale andò Cromwell rilevando la sua portentosa grandezza ». Oppure parlando ancora di Cromwell: « È uomo di giudizio sodo e massiccio, che conosce la natura degli Inglesi, come il cavallerizzo i suoi cavalli di maneggio, e per ciò a un solo cenno della verga li fa volteggiare da tutte le parti ». Magnifico come immagini e come lingua questo ambasciatore veneziano; e non è il solo. A tali prove si pensa che sia l’antica vena latina che operi in loro.
In questi uomini che non pensavano di essere letterati la lingua italiana è forte, chiara, scorrevole e soprattutto coraggiosa. Così coraggiosa dà prendere i nomi di città, di regioni e anche di famiglie straniere e costringerli ad una forma italiana. Forse fu l’esempio di Dante, che di Bruges fece Bruggia, ad iniziarli, ma penso invece fosse in loro così orgoglioso senso della propria razza, divisa, ma unita nella lingua comune, da voler vincere con questa la barbarie dei suoni stranieri. Certo questo non voler accettare il nome straniero come è, risulta quale un segno di forza, di irriducibilità particolare alle razze pure.
Gli esempi sono moltissimi in queste Relazioni, come Antibo per Antibes, Roano per Rouen, Rocella per La Rochelle e naturalmente Sciampagna per Champagne. Il nome di famiglia Bouillon, viene trascritto prima seguendo in parte la pronuncia in Bouillion e poi addirittura in Buglione, quello di cardinale di Roban, in Roan, quello di cardinale di Joyeuse, in Gioiosa, di duca di Lavardin, in Lavardino, di duca di Longueville in Longavilla. Quello delle isole Jersey e Guernesey, in Jersea e Gamseia, Galles in Vaglia e Cambridge in Cantabrigida. Altro esempio ben noto è quello di Benvenuto Cellini che di Fontainebleau ne fece Fontana Belio.
Da questi esempi si possono trarre alcune regole. Prima, scrivere il nome straniero come viene pronunciato nella lingua originale e italianizzarne la fine, come si è fatto recentemente per Brusselle. Seconda regola sarebbe tradurre in altro corrispondente italiano, fino al punto che sia possibile mantenere la individuabilità, così come Nuova York. Terza regola trasformare il nome fantasticamente come Fontana Belio, Cantabrigida, o Broccolino per Brooklyn come usano i nostri emigranti.
Di queste tre regole tolte dalla pratica mi sembra che preferibile sia la prima. Ma questa presenta la difficoltà di non potere rendere esattamente colla scrittura italiana tutti i suoni della pronuncia straniera. Molti difatti sono già in uso in forma inesatta, come China invece di Cina. In cinese, Cina si dice Ciùnquo (quo, significa stato; e per questo è errato dire: lo stato Manciùquo). Il suono chi di China è dunque inesistente nella lingua originale e sorse nella lingua italiana da un’errata lettura del nome scritto in inglese negli atlanti. In inglese si scrive China, ma si pronuncia Ciaina. E Daniello Bartoli scrive Cina. Perché insistere a scrivere China e chinese? sono invero chineserie. Altro caso è quello della cosidetta Sciangai. Nella parola cinese non esiste né il suono sciang, né il suono ai, ma per la prima parte che significa sopra, esiste un suono dopo la esse aspirato, che non è affatto reso dalla combinazione scia, già usato per Scià di Persia, anche non corrispondente alla pronuncia e in altre lingue, come l’inglese, meglio scritto in Shah. E così la seconda parte della parola che significa mare, non contiene il suono ai, ma ài aspirato. In questo caso occorre sia trovato il modo di rendere colla nostra scrittura il suono originale esatto come avviene nella lingua inglese che usa Shanghai.
Forse la risoluzione noi la abbiamo già. Per il verbo avere, si è preso a sostituire l’acca, nei casi dove appariva inizialmente con l’a oppure l’o accentate. E quindi si potrebbe scrivere Sàngài invece di Sciangai e Sà invece di Scià. Inoltre le consonanti w, x, k, e le vocali y e j non sono italiane e sarebbe logico sostituirle con quelle italiane equivalenti in molti nomi di città e regioni, e arrivare a scrivere Iorc per York, Tochio per Tokio dopo aver adottato da tempo Pechino per Pekino e Corea per Korea. E assolutamente lo sarà possibile per quei nomi relativi all’Estremo Oriente per i quali non è obbligatorio seguire la scrittura inglese o peggio quella francese, come tuttora suole fare la nostra stampa quotidiana.
E così avviene per città arabe di occupazione francese per le quali si segue la scrittura in questa lingua come Sidi-bou-Said invece di Sidi-bu-Said, Kairouan invece di Cheruan, Korbous invece di Corbus ed altri ancora. Già altra volta ho sottoposto il problema se si deve scrivere Harar o Arar nel caso l’acca italiana abbia o non abbia suono e se lo à come aspirazione si potrebbe sostituire con l’a accentata. Ancora nella parola abissina degiac, e in altre del genere con finale identica, in uso nella nostra lingua, si debbono scrivere a questo modo, quando la pronuncia è invece altrimenti? e cioè con la ci dolce. Forse sarebbe meglio costringere come avrebbero fatto gli Ambasciatori veneti degiac in degiacco e via di seguito. La prima regola è buona, ma solo fino a un certo punto e non si potrà arrivare a scrivere Bonnetto per Bonnet o Ciamberlano per Chamberlain.
In quanto a certe parole di origine straniera e fortemente in uso nella nostra lingua, taluni argomentano sia da adottare la pronuncia corrente nel dialetto toscano, come filme, camio, alcole. Stiamo attenti che non si finisca col fare cosa caduca come per il passato brumme, ponce e rumine. Questi toscanismi che detestano le finali tronche anno fatto il loro tempo. Il dialetto toscano è rispettabile quando ci insegna di usare prossimo invece di vicino, rimanere invece di restare, ma guai quando si vuol fare prepotente coi zinzini, garganella, pispini, partitoie e duracine e giù di questa china. Ma chi vorrà sostituire la parola inglese sport? credo che neanche il toscano osi dire sporte.
Se si dovesse analizzare acutamente la nostra lingua si troverebbe che una buona metà di essa è debitrice al greco, al tedesco e all’arabo e occorre avere una certa sopportazione. Intanto bisogna distinguere: vi sono parole straniere di uso popolare anche vastissimo, ma destinate ad essere transitorie e sono di trascurabile importanza, ma altre non lo sono affatto ed è solo per queste che bisogna fare attenzione e studiare di italianizzarle. Per queste è solo il marchio di collaudo che serve a dare loro valore di circolazione. Si pensi alla parola velivolo, collaudata da D’Annunzio invece di aeroplano, pesante e che non si sollevava da terra. Sia per l’autorità letteraria di chi crea la nuova parola, sia per l’importanza letteraria del primo uso che di essa si fa, in un verso o in un periodo indistruttibili, quella parola avrà vita.
Giovanni Comisso
N.B. — 1) Penso si debba essere contrari alla parola pratino per erbetta proposta per sostituire gazon, appunto perché troppo toscaneggiante. 2) Quando avverrà che noi scrittori e noi giornalisti ci libereremo dall’uso della particella articolata di alla maniera francese inutilissima, inefficace e petulante? Un quotidiano scrisse recentemente: « Contro l’esterofilia nei ristoranti ». E poteva scrivere: « Italianità nelle trattorie » abolendo due esterofilie, e nel testo scriveva: « I ristoranti devono presentare ai clienti nazionali unicamente delle liste», mentre si poteva scrivere: « Le trattorie devono presentare ai clienti nazionali liste », abolendo innanzi tutto il francesismo indigesto.
Collezione: Diorama 28.12.38
Etichette: Giovanni Comisso
Citazione: Giovanni Comisso, “Lingua italiana imperiale,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2412.