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Titolo: Sulla via di Scanno

Autore: Nino Savarese

Data: 1939-01-18

Identificatore: 1939_56

Testo: Incubo della Valle del Sagittario - Vicende d'un paesello alpestre - Il custode solitario
Sulla via di Scanno
Scanno, gennaio
Giungere a Scanno, raccolto e ridente paese sul lago, attraverso la Valle del Sagittario, dà l’impressione di risalire alla vita e alla speranza, uscendo da un incubo.
Capitali nel dedalo di queste montagne, sembra di aver varcato i limiti della terra conosciuta, ed essere rimasti prigionieri in un mondo governato da altre leggi: sembra che quei picchi eccelsi, quelle rocce nude, quel fondo posseduto da ombre perenni, attuino un regno di fantasia, un mondo eroico e soprannaturale, lontanissimo dall’adeguato dominio dell’uomo, che è la terra aperta, in piano o in colle.
La Valle del Sagittario non può dirsi nemmeno una valle; è una gola, una piega strettissima e profonda dentro cui scorre il fiume di questo nome. I monti sono così vicini e cosi alti da tutti i lati, e per tutta la sua lunghezza, che sembrano piuttosto muraglie, l’una addossata all’altra: il cielo vi appare in quella vietata lontananza che prende se guardato dal fondo di un pozzo: forse più reale e prezioso, ma estraneo, non fatto per esser goduto dall’uomo.
Le ombre sono cadute da tempi immemorabili al fondo di questi recessi, irrimediabilmente, senza speranza di essere mai più sollevate dalla luce: il sole che sulle pianure abbaglia, dilaga e impigrisce, qui si vede sulle cime come un’apparizione d’oro: ali del cielo spiegate sull’abisso.
L’eremita delle acque
La strada si insinua, con grande difficoltà, in una strettezza che opprime. L’ingegnere che la costruì (e una lapide a metà del percorso ne ricorda il nome come quello di un eroe leggendario), per evitare le gallerie, la condusse sul lembo della roccia, e invece di forare la pietra, ebbe l’idea di scalfirla allo scoperto, come rialzandola sul capo del viandante, così che sembra di passate sotto cortinaggi di pietra. E i rari veicoli e i piccoli uomini sembrano insetti perduti nelle pieghe di una gran veste che, fermata nell’altezza delle cime, si allarghi alla base, in un panneggiamento statuario. Strada senza incontri, strada che non conosce gli indugi del sole, senza un animale al pascolo sui suoi fianchi di pietra.
Il viandante che vi si avventura, la tiene sotto i suoi piedi come il filo di Arianna, col pensiero e il desiderio di affrettare l’uscita. Solo un uomo vive in questa solitudine!
La sua casa è salda come una piccola fortezza ed è costruita a traverso il corso del fiume, le cui acque così sbarrate, si raccolgono in un laghetto verde senza sponde, senza accessi; un lago morto su cui si specchiano le mura senza finestre della casa solitaria.
L’uomo è sopra una piccola barca: a lenti colpi di remi costeggia la muraglia che fa da base alla fortezza, e non si comprende se stia pescando o se guardi con maniaca intensità il fondo dell’acqua: sembra che debba passare su quella barchetta anche le ore della notte per paura di chiudersi tra quelle mura così salde, in quelle camere fredde e vuole, nel silenzio terribile di questo luogo pieno di ombre perenni.
Non è un eremita, egli è un guardiano: è il custode delle acque del Sagittario. C’è sulla sua persona un’aria severa, ma nello stesso tempo mortificata; è l’aria dell’aguzzino, del carceriere: il suo ostaggio è il fiume, prigioniero senz’occhi e senza corpo.
Egli, con le mani ai comandi delle sue saracinesche, lo tiene in suo potere: solo, in una opposizione muta e continua, in questa solitudine spaventosa! È un carceriere, ma nello stesso tempo un condannato; ha assoggettato quella lieta e irrompente creatura che si inebriava di libertà e di potenza correndo per la sua via ardua e segreta, ma ora partecipa della sua condanna per attuarla e mantenerla: sembra che nella pace e nel silenzio, covi la pena dell'uomo e il rancore del fiume.
Ora vediamo la stretta alla quale il Sagittario fu preso e strozzato, e dove fu buttato nel nero abisso che lo inghiottì: andrà a cadere al piano da quattrocento metri di altezza nel cuore d’una centrale elettrica.
Il carceriere solitario è un pubblico funzionario; il suo castello non è nato per opera di incantamento, ma ve lo ha costruito l’amministrazione delle Ferrovie dello Stato.
I tre borghi di Frattura
Ma ecco che sbocchiamo finalmente nella valle aperta: bei filari di pioppi si affollano sulla soglia della valle a darci il benvenuto: compare lo specchio del lago con un sorriso di cielo: in fondo è Scanno.
Salendo per poco, vediamo il paese che, nell’ora del mezzogiorno, fuma da tutti i suoi tetti come un braciere: la valle è tutta alberata e coltivata, le sponde del lago sono frequenti di barche di pescatori; sulle prode erbose, sui fianchi delle colline si vedono piccole frotte di pecore, e dai monti, qui coperti di boschi, scendono muli carichi di legna.
In alto, sul monte che abbiamo alla nostra sinistra, che è monte Genzana, vediamo una striscia di case nere che sembrano decrepite, poco discosto una striscia di tetti rossi bassi, uniformi, da baraccamento, e sempre alla medesima altezza e circa cinquecento metri più in là, alcune case chiare che hanno l’aria di un inizio di paese nuovo. In questi tre gruppi di abitazioni c’è tutta la storia di un borgo.
Il vecchio paesello di Frattura ora sembra un albero secco: dà appunto quél senso che dànno gli alberi, che pur conservando la primitiva architettura dei rami e del tronco, e riempendo l’aria con le loro linee di prima, non hanno più linfa, non hanno più vita.
Così, di Frattura, si vede ancora il contorno dei tetti e della antica torre, ma si sente che di dentro il borgo è vuoto come un tronco che comincia a sfarinarsi in detriti e diventare nido delle tarme e delle formiche. Anche a non sapere che il borgo è disabitato e cadente e in gran parte caduto, si indovinerebbe lo stesso da lontano, per una cert’aria di troppo minerale, di troppa quiete che ha preso: un'aria di sola pietra.
Il borgo aveva ceduto per una frana verificatasi alle pendici del monte, e nell’ultimo terremoto finì di crollare.
Furono costruiti nel prima momento dei baraccamenti, e sono quella striscia di tetti rossi che si vede accanto al paese abbandonato, e qui furono ricoverati gli abitanti di Frattura in attesa delle decisioni del Governo e degli stessi cittadini, giacché fu prospettata loro la eventualità che si aggregassero alle popolazioni di Scanno e di Villalago. Non sarebbe stato un gran concorso, si trattava di un migliaio di uomini: andassero ad unirsi ai loro vicini, li a due passi, avrebbero avuto le loro case nuove accanto agli altri, sarebbero stati in buona compagnia.
Gli interni delle baracche cominciarono a risuonare di gravi ed accesi discorsi, alle volte di aspri litigi.
I giovani erano tutti per l’abbandono di Frattura:
« Andiamo a Scanno, andiamo a Villalago, li il paese è bello e fatto, le strade ci sono, ci sono le botteghe ».
(Qualcuno dei più intraprendenti pensava forse che d’estate ci sono anche i villeggianti. )
Ma i vecchi erano irremovibili:
« Le terre che lavoriamo sono sulla montagna, noi dobbiamo abitare vicino alle nostre terre ».
Dicevano i giovani: « Faremo un poco più di strada, ma abiteremo da cristiani, non sulla montagna come i lupi ».
« Ci siamo nati e ci vogliamo morire », rispondevano i vecchi.
Scanno e anche Villalago, nella loro aggraziata piccolezza, dovevano apparire luoghi di delizie o luoghi di perdizione alle menti dei fratturesi, a seconda da chi erano pensati, e si continuò a discutere e a battagliare.
Rimanere sui monti
Alla fine vinsero i vecchi, vinse in realtà la terra che tiene legati gli uomini che la coltivano che l’amano e di essa vivono.
O generosa pazienza del Genio Civile! Ha dovuto cominciare col costruire la strada che conduce a Frattura Nuova di cui ci sono già otto case e la scuola.
Una strada che non finisce mai di salire per pendii e giravolte, scoprendo sempre più vasto orizzonte, lasciando sempre più in basso e più avvolto di verde e d’azzurro, Scanno col suo lago, e Villalago che, tirata in disparte, sembra voglia nascondersi, facendosi piccina tra gli alberi: sale fin quasi a raggiungere la vetta di monte Genzana che non promette nè boschi, nè acque e non vigne e non frutteti, ma solo terreni da coltivare a grano: pane dei fratturesi.
Quelli rimasti nelle baracche, sotto l’incubo delle nere ombre del paese abbandonato, aspettano che sia finita una nuova casa, per correre ad abitarla, e quelli che già vi abitano aspettano di veder giungere gli amici e i parenti ancora lontani.
Il Genio Civile, sempre più imbarazzato di sentirsi al centro di questo dramma familiare, sembra impaziente di veder finalmente riunite queste centinaia di fratturesi, e sollecita più che può i lavori, e abbozza le vie, pur che ci sieno, e una piazza pur che ci sia. Chè l’ingegnere direttore dei lavori, quando capita quassù, è circondato dagli abitanti di tutte le otto case, con le donne i vecchi e i bambini, ed è fatto segno alle più svariate sollecitazioni, come fosse non il capo-ufficio, ma il capo della famiglia.
I vecchi seduti sul muro, che cinge lo spazio che un giorno sarà la piazza di Frattura Nuova, ora guardano il paesaggio rassicurati e tranquilli.
È stato risparmiato loro il dolore, e forse anche l’umiliazione, di non potere più guardare Scanno e Villalago dall’alto, e vederli piccoli e lontani.
Non che vi sia inimicizia tra questi paesi e il loro: ma è giusto, ed è anche bello, che ognuno se ne stia per suo conto e ognuno faccia da sè. I paesi del lago sul lago, e i fratturesi qui sulla montagna, coi loro seminati accanto, e senza smettere l'antica abitudine di guardare da sopra in giù i loro vicini, chè, diversamente, sarebbe sembrato loro di esser caduti in fondo al pozzo, come Scanno, come Villalago.
Nino Savarese
I costumi delle donne di Scanno
Il lago di Scanno

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 18.01.39

Citazione: Nino Savarese, “Sulla via di Scanno,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2473.