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Titolo: La statua

Autore: Camillo Sbarbaro

Data: 1939-01-25

Identificatore: 1939_57

Testo: La statua
Non è l’innocenza della sposa, che ammette il lampo di compiaciuto rossore; e tanto meno quella della donna ormai spoglia e sorriso, che, avendo tutto accolto della vita, ha riconquistato, concreta questa volta, l’innocenza dell’infanzia.
Questa è un’innocenza remota; fatta soprattutto di distacco; che si impone, ma scosta, come ciò che non si comprende.
Al suo cospetto, anche di questi scalmanati assisto, con disappunto, alla resa.
È che intorno a costei, naturalmente, da sé, tutto si compone in lineamenti consentiti ed ammodo; come il giardino in cui ci riceve: mondo e lustro in virtù di non altro, si direbbe, che dello sguardo che posa in giro.
Non ha nulla di etereo; è ben piantata sulla terra; vi pesa. La parola placida, scandita, che interno ordine presuppone! Con la casa alle spalle, spalancata nel dì d’estate su un’intimità senza mistero, discorre dei suoi cactus. La voce bianca, lo sguardo distante le assicurano una maestà di statua; che il leggero abbandono impostole dall’ora, le maniche corte sulle braccia di Pomona, nonché disturbare con quel di terreno che le danno, aiutano anzi ad accettare.
L’ammissione dei cactus in questo mondo ordinato sa già di sfida; come quella del resto di compagnie così stonate. E, ancora, i cactus troveran grazia ai suoi occhi per la geometria delle forme, pel disegno delle spine; ma, briganti vegetali, distillatori di veleni e di stupefacenti, essa certo li tiene per estendere anche sui mostri il suo dominio. E scommetto che non ne riporta mai la mano fasciata.
Calmo potere ch’essa non fa nulla per affermare; che si esercita all’infuori di lei, a volte diresti a sua insaputa; e cui tutto piega, vedo, in questo suo regno conchiuso.
Non so come tale ascendente si farà sentire sugli indisciplinabili uccelli che alleva, odo, in libertà. Ma immagino che la screzieranno di colori e di trilli, le faran nuvola intorno; si comporteranno con lei, insomma, come gli attributi delle divinità.
Così il lorito, di cui giungono i berci dal retro della casa, col servizievole affaccendarsi sullo stollo le renderà l’omaggio che non può col becco indurito nel turpiloquio.
Che sia così arguisco dalla sommissione che le testimoniano sotto i miei occhi i cani da guardia.
I mastini, i cani lupo, che, nutriti di carne cruda, al menomo scalpiccio sulla strada maestra riempiono la notte di minaccia; e che trattenuti nel balzo, si sollevano — ad accostarli — come marosi; rantolando, la lingua penzoloni, impiccati dalla catena; all’apparire di lei cercan col ventre uggiolando terra; le si annullano davanti, la testa che vorrebbe penetrare nella ghiaia, gli occhi che mendicano, a portata del suo piede.
Privilegio questo — di domare i mostri con la presenza — di cui gli antichi circondavano la verginità.
Ma la verginità non scosta; cenere su brace, è amabile anche selvatica: trepida qual è di attesa e armata, come il boccio, solo del suo riserbo.
Questa, se mai, è una verginità deliberata: che si chiude, compiaciuta di sé, in una alterezza, affabile al più; ma senza sorriso.
Contro la quale, non sarebbe il marito la seria obbiezione. Mingherlino e vociante, governato di continuo dallo sguardo di lei, costui non occupa nella sua corte, si vede subito, granché più posto del pappagallo chiassoso.
Una presunzione più grossa è il figlio: non meno reale, per esistere in sordina, da chiudervi su un occhio.
Non potendo per spiegarlo restituir fede alle favole dell’infanzia, vien fatto di approfittare, pel momento, del filo che senza parere la madre ci porge:
« I miei fiori più belli li ho ottenuti per marze e talee ».
In questo numero, fraintendendola appena, perché distrattamente non includere il figlio — esile e soave com’è; guardato dall'aria; fiore appunto di serra? Spiegazione da servire finché soccorre e che regge, giusto, finché si è qui.
Anche costei allora come la pianta di cui dice: « Ha la foglia gremita di gemme. Ogni gemma che si stacca dà nascita a un’altra pianta. Col caldo, anche nella ghiaia attecchiscono. Se la lasciassi fare, infesterebbe il giardino ».
Con quella fronte alta e bianca, e questa voce intatta, la vedo, nel giardino di tutti fiori doppi e stradoppi, prolifico solo così, soggiacere alla sua legge innocente: il braccio penzoloni, un’ora di assopimento.
Perché non è l’idea di maternità che il suo aspetto di statua rifiuta; è pensarla turbata nella carne che — questa donna — non si può, più che, appunto, una statua.
La compagnia che dalla strada s’era sollevata contro tutta la muta, è ora, coi cani, ai suoi piedi.
C. ha rintascato le sue salacità, in una col bocchino dove ha smesso di fumare. Esse non troverebbero accoglienza neppur più nella bionda troppo bionda, che scattava ad ognuna in risatine tonde, tutte a galla; e che ora, seria seria come la aspettasse una reprimenda, è impegnata a castigare sulle ginocchia la scarsità della gonna.
Cessato il lancio di petardi, dacché a D. è toccata la umiliazione di raccattarne uno sotto gli occhi di tutti: il più micidiale, andato in quest’aria inesploso.
Persino la limpida vecchina che sollevava in mezzo a noi, come un ostensorio in chiesa, la parola amore, pronunciata in tutte maiuscole — e metteva in rispetto il più sguaiato, sotto quelle rughe, quella fede di giovinetta — intimidita, presta un interesse di circostanza a questioni di giardinaggio; essa che di fiori conosceva fin qui poco più che le rose, e, ancora, sotto forma di omaggio maschile.
E già l’ospite, tediata della sua vittoria, indolentemente lascia cadere l’incantesimo della voce; e, sentendoci congedati, io — offeso da questo gelo che di anno in anno me la rimostra eguale — quasi ancora sperassi di scoprire nel blocco la falla, già in piedi, irritato la scruto; quando qualche cosa accade, per cui trasalisco e tiro insieme un respiro.
Qualche cosa di ben naturale, ma di cui ciascuno fa tosto vista di non accorgersi.
Di colpo, tutti infatti da lei si distraggono a tempo; interdetti per lei; e, nel silenzio che si fa, si diffonde un disagio da cui è fuori lei sola.
Nel recare la mano alla nuca, la statua ha scoperto alla vista di tutti — ha esposto un interminabile minuto — l’ascella animalesca.
Ed è stato come uno, di punto in bianco, la oltraggiasse davanti a tutti; uno che poteva e non si pensava più che esistesse.
Camillo Sbarbaro

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 25.01.39

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Citazione: Camillo Sbarbaro, “La statua,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2474.