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Titolo: Il Fascismo e gli intellettuali

Autore: Giuseppe Prezzolini

Data: 1939-02-08

Identificatore: 1939_79

Testo: Il Fascismo
e gli intellettuali
Nuova York
Alle volte mi chiedono in questo paese: «È vero che il Fascismo diffida degli intellettuali italiani? ».
Coloro che me lo domandano sono, naturalmente, intellettuali americani: quegli intellettuali che volendo sostituirsi ai pionieri, agli industriali, ai banchieri minaccian di imbastardire l’America.
E io mi diverto molto a rispondere: «Se il Fascismo ne diffidi, non lo so; questo so, che farebbe benissimo a diffidarne ».
Mi dispiace per i miei amici, colleghi e conoscenti, sfortunatamente partecipi di quest’appellativo, ma noi intellettuali siamo una gran brutta razzaccia. Dico « noi » e mi ci metto in parte anch’io, perché ci son cresciuto dentro e ho sofferto della malattia degli intellettuali, ma spero d’esserne guarito, e faccio quanto posso per curarne gli attacchi periodici, che vengon fuori come le quartane e la malaria, appena si riprende un po’ d’aria del luogo dove ci s’appiccicarono; ma si capisce benissimo che un uomo politico, con responsabilità, o semplicemente un uomo serio, abbia diffidenza degli intellettuali infidi, indecisi, dubbiosi, fragili, astratti, aperti al nemico, senza difesa di volontà e quasi incapaci di obbedienza, se non per stretto sentimento di interesse o di paura.
Non sono critiche che faccio, ma definizioni. Son così e non potrebbero essere se non così.
Che cosa vuol dire « intellettuale », se questa parola ha da avere un significato? Uno che mette sopra ogni altra cosa la soddisfazione di « intelligere », di capire, e che perciò dev’essere pronto a capire qualunque cosa e a mettere in discussione qualunque cosa. Se non lo fa, sarà una brava persona, ma non un intellettuale. Sarà un semintellettuale, un intellettuale fermatosi a metà dello sviluppo, un intellettuale mascherato, svanito, impaurito, burocratizzato, paralizzato, amalgamato, castrato, ma non un vero intellettuale.
Qual è, e quale dev’essere l’ambizione vera di un intellettuale?
Tutto capire; e siccome per capire tutto non bisogna essere estranei a nulla, e non chiudersi a niente, e avere una certa indulgenza per tutto, non ci sarà sentimento o giudizio o esperienza che l’intellettuale possa rifiutar per principio. Se lo facesse, non sarebbe un vero intellettuale.
Per essere un vero intellettuale ci vuole un certo coraggio e una specie di corruzione profonda, gangliare e centrale.
Non tutti gli intellettuali, fortunatamente, ce l’hanno; ma ciò non toglie che quello sia il limite e l’ideale, per dir così, al quale logicamente li conduce la loro posizione mentale.
Io sono stato un intellettuale, e posso parlare con cognizione del male intellettualistico. C’è stata un’epoca della mia vita — se un termine così grande può adattarsi ad un’esistenza così piccola — in cui mi sentivo e mi gloriavo di essere un vero intellettuale, e non c’era nessuna bestemmia od orrore, domanda o impertinenza che potesse farmi impressione; sarei stato pronto a discutere l’onore di mia madre e l’esistenza del mio paese senza scandalizzarmi o sentirmi ghiacciar lo spirito. E mi pareva ci fosse una specie di grandezza e quasi di nobiltà in questo stupefacente assordimento di sensi e cedimento di ragioni di vita; in questo, diciamolo pure, cessare di ogni fremito d’onore e di vitalità.
L’intellettualismo stermina tutto: le ragioni del mondo e il mondo stesso, la vita sociale e le possibilità dell’azione, i fini e i mezzi dell’esistenza e con una rapidità e dirittezza logica si dirige, naturalmente, ai centri vitali dell’uomo.
Invade lo spirito e non lascia nulla in piedi.
È un male cancrenoso che non si ferma, una volta che s’è attaccato o ci voglion rimedi energici, chirurgici e radiologici per estirparlo: sempre col rischio che si ripresenti.
Ora vivere non è discutere, ma affermare; è credere, e non provare; è assumere, con rischio e responsabilità severissima, non dubitare. Il posto dell’intelligenza nella vita è limitato e complementare. La sua usurpazione del centro dell’uomo è malattia. Il rimedio è il rischio, la lotta, l’avventura, il buttarsi in acqua anche senza saper nuotare, e si può farlo soltanto quando è rimasta abbastanza vita perché il rimedio abbia materia su cui operare.
Quando ogni anno torno in Italia e mi piace andare intorno interrogando e sentendo gli umori, trovo quasi sempre una differenza fra quel che mi dicono le genti semplici e gli intellettuali o i semintellettuali. Se ci sono lamenti e se ci sono dubbi vengon quasi sempre da questi. Anche la gente semplice ha le sue lagnanze, — e chi non ne ha al mondo? — ma con un tono differente: nelle loro lagnanze c’è risentimento ma non c’è acidità e spesso ci trovo la speranza e la fede in un rimedio che verrà ai mali, o in un più grande bene, che inghiottirà e nasconderà quel male particolare. Negli intellettuali che si lagnano il tono di astio e di ironia predomina.
Sarebbe tempo che gli intellettuali italiani capissero che il dovere dell’intelligenza, in certi momenti, consiste nel ritirarsi e lasciare dominare altre forze, più importanti nella vita sia degli individui, che delle nazioni. Sopra un bastimento, mentre la tempesta minaccia e scuote, non c’è da discutere ma da obbedire. Mi ricordo d’aver sentito dire come in guerra sia sempre meglio eseguire un ordine che può magari apparire sbagliato che volerlo correggere di testa propria, perché la confusione generale che ne deriva è peggiore dell’errore parziale. E oggi non ci sono tempeste nel mondo? Non siamo forse in guerra?
Perciò, quando gl’intellettuali americani mi domandano se il Fascismo ha diffidenza degli intellettuali italiani, rispondo che non ne so nulla, ma che mi parrebbe cosa naturalissima e opportunissima che l’avesse.
Giuseppe Prezzolini

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 08.02.39

Citazione: Giuseppe Prezzolini, “Il Fascismo e gli intellettuali,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2496.