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Titolo: Conoscenze a Brema

Autore: Paolo Cesarini

Data: 1939-04-19

Identificatore: 1939_140

Testo: CONOSCENZE
A BREMA
Avvenne invece che mentre sbarcato a qualche piano mi avviavo pesantemente ad una camera, mi rincorse una voce affannata: — Bene arrivato, signore. Avete fatto buon viaggio, signore? Vi ringraziamo molto di averci onorato, signore. — Poi arrivò questo cameriere con le code, il cravattino bianco, una pappagorgia rosea arrotolata sul colletto e un po’ di capelli gialli stirati sul cranio. Io gli sorrisi per quel saluto italiano e lui si carezzò le mani sodisfatto. Fu così che mi detti soltanto una lavata e mi feci la barba; volsi le spalle al letto e calai nel ristorante sotterraneo.
Il cameriere, che ora sapevo chiamarsi Karl, mi attendeva:
— Io so come si mangia in Italia
— disse togliendo dal tavolo la lista delle vivande. — Queste cose non vi piacciono. Vi farò portare un minestrone, se credete. Volete del pane, vero? Ho già mandato un ragazzo a cercarlo. — Sorrideva sempre e parlava non così filato come ora racconto, ma con delle brusche fermate e poi degli scivolii e aggrottamenti di ciglia nella ricerca di qualche parola: — Come dire? Come si dice? Insalatina, ecco.
Quando mi depose davanti la scodella disse: — Questo minestrone è una boiata — e rise. Io mi limitai ad osservare: — Mi pare un po’ troppo liquido. — Qua non si ha un’idea di come si mangi bene in Italia, seguitò lui. Io penso sempre agli spaghetti e al minestrone alla genovese e sono quasi venticinque anni che non sono stato in Italia. — Mangiai la minestra, una bistecca e le frutta e Karl, pietanza per pietanza, me ne disse un gran male e. forse mi avrebbe mandato via l’appetito; ma pietanza per pietanza mi parlò con tanta nostalgica ghiottoneria di zuppe, bistecche, aranci italiani che sognando mangiai sodisfatto.
Intanto al piano di sopra era cominciata una musichina e Karl volle che salissi nella sala da ballo a prendere il caffè. Mi misi in un angolo, sotto la statua di un ragazzo nudo, veramente troppo nudo per una sala da ballo e avevo l’orchestra e la pedana lucida bene in vista. Che altro potevo fare?
Ero stanco sul serio e anche il guardare diventava già un lavoro faticoso. — Vedete? — mi diceva passando l’amico Karl e quando era lontano mi faceva un gran sorriso e mi indicava i ballerini. Vedo, vedo. C’erano giovanotti cresciuti troppo dentro i vestiti, le mani e i polsi fuori delle maniche e ragazze con scarpette bruttissime, che ballavano ogni coppia in un modo diverso, pensando poco al tempo. Ma facevano ogni cosa in serena allegria ed erano tutti molto giovani. Sembravano impiegati, dattilografe, studenti; gente alla buona. Entravano di corsa in sala questi giovanottoni, filavano diritti verso una ragazza e la portavano sulla pista: un ballo, un applauso, un altro ballo e poi « auf wiedersehen » e lui riprendeva la porta. Le donne lo stesso; alcune non posavano nemmeno la borsetta e ballando salutavano i conoscenti. Il pubblico si rinnovava continuamente.
Ad un certo punto entrarono cinque o sei ragazze insieme; una parte trovò subito dei ballerini liberi, due di esse che rimasero senza si presero tranquillamente per i fianchi e ballarono così. Mi pareva che fossero tutti ragazzi a cui la mamma avesse detto: — Vai qui all’angolo a prendermi mezzo chilo di sale. Ma fai presto perché la minestra è già sul fuoco. — E i ragazzi approfittavano della commissione per dare una capatina in sala da ballo.
Stavo così scuriosando dentro questo mondo nuovo quando eccoti Karl che viene verso di me e nella sua scia segue una ragazza. — Questa è una signorina, come dire, che sa un poco di italiano — e lei ha un sorriso confuso, ma riempie con il suo rossore la mia solitudine. Una bella ragazza in fede. Io non avevo più sonno e cercavo di parlare piano e facile. Come le grammatiche: — La sala da ballo è molto illuminata. — Lei mi ascoltava un po’ timorosa e poi rideva. — Ja, ja. Sì... è molto illuminata.
Qualcuno si rivoltava a guardarci ed eravamo contenti, lei del successo di curiosità, io della sua presenza. Prima il mio tavolo era tristissimo ed ora un posto bello più di tanti altri. Parlavo come le grammatiche e la bionda ragazza mi guardava le parole uscire ad una ad una dalla bocca e ad ogni frase scattava: Ja, ja, poi tormentando la cerniera della borsetta andava in giro come fra vocabolari, manuali e quaderni e metteva insieme con lunghi sospiri le paiolette che parevano vagare oltre i suoi chiari occhi. Ma si faceva intendere: è già tardi, devo tornare a casa, non posso venire al teatro, arrivederci a domani. Si alzò e andandosene si calcava il cappellino e spingeva con le dita i riccioli sotto il feltro. A me riprese il sonno, invincibile ormai.
Il giorno dopo Mariechen era proprio accanto al distributore di sigarette all’angolo del Museo Coloniale. Passava una carovana infinita di dopolavoristi bavaresi coi pantaloncini di pelle e i bastoni ferrati; io credevo di non trovarla più, ma lei sventolava il cappellino e si rizzava sulla punta dei piedi. Era una domenica di luglio e non si stava un gran che bene nell’autobus scoperto che faceva il giro della città. I sedili di cuoio bruciavano e la benzina puzzava un po’ troppo. Ma Mariechen era molto allegra, forse aveva studiato la sera avanti ed anche la mattina presto i discorsi da farmi e mi spiegò molto bene Brema. Credo ormai che non ci sia altro da vedere lassù, se non quel Museo Coloniale che mi attirava molto, ma che tradii per una colazione sulle rive del Weser.
Passammo diverse ore lietamente; ci sono parchi con lunghi viali diritti e grandi alberi e pratini che si rinfrescano fra un laghetto e un canale, con anatre bianche e brune; e tempietti di scagliola ombreggiati dai salici. Più fuori della città stanno in fila le casette di legno piccine piccine, dipinte di rosso con i gerani alle finestre verdi e l’asta lunga, piantata nel piccolo orto, che svetta un poco in cima quando la bandiera uncinata prende vento.
Migliaia di casette allineate come soldati, dove le sere d’estate i cittadini di Brema vanno a fumare la pipa e le mattine di festa le ragazze si mettono in costume da bagno; e perché appunto era domenica c’era una gran fioritura di gioventù seminuda che si dava al buon tempo.
Io parlavo un po’ meno grammaticalmente, ma Mariechen non mi guardava più spaurita e la gente dell’autobus si volgeva cordialmente dicendo: « Italiener », diceva anche altro, ma io non riconoscevo che quella parola e dicevo di sì e ci si salutava romanamente.
Sul Weser i pontoni stavano fermi in lunghissime file e l’acqua scorreva così piano che sembrava uno specchio polveroso. Dalla città giungeva il brusio del gran movimento e un odore tanto forte e diffuso di mangierie che scendemmo in un giardino e prendemmo tutto per noi un tavolo.
Sulla tovaglia c’era un garofano rosso; lo presi e l’offersi alla mia dama e non mi parve di fare altro che una banale cortesia; ma lei arrossì. Era senza cipria e un po’ lucida di sudore. Il garofano stava bene a confronto della sua bocca schiarita. Mormorò: — Danke schön. Grazie — e io: — Non c’è di che. Bitte. — Allora ridemmo a lungo e venne su per l’estuario del Weser un alito amaro d’oceano.
Paolo Cesarini

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 19.04.39

Citazione: Paolo Cesarini, “Conoscenze a Brema,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 12 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2557.