ARGOMENTI (dettagli)
Titolo: ARGOMENTI
Autore: Enrico Falqui
Data: 1939-06-07
Identificatore: 1939_171
Testo:
ARGOMENTI
Taluni hanno terrore delle definizioni critiche e anche di fronte alla più empirica e più pacifica distinzione di « genere » fuggono gridando aiuto in pro della poesia che, a dar loro retta, ne rimarrebbe offesa e deturpata per sempre nel fiore e nella essenza della sua divina liberta. Ma quando poi costoro s’accingano a voler dare e documentare un giudizio critico sopra un’opera letteraria senza trascurarne il valore propriamente artistico, c’è caso sperimentino l’aiuto di certe distinzioni.
In occasione del Solus, per esempio, nonostante la qualifica di « diario » e « giornale » datane dallo stesso autore (nelle lettere a Giusini del 10 novembre 1911 e del 25 agosto 1912), sarebbe bastato cercar di precisare i caratteri distintivi di detto « genere » per mettere subito fortemente in dubbio che, pur deliberato ad affidarsi a una scrittura simile, l’autore, nella persona di un D’Annunzio, avrebbe potuto raggiungervi la quotidianeità e l’intimità sempremai connaturali. Habent sua fata anche i deprecati « generi ». E quando noi diciamo che il diario della vita di D’Annunzio resta quasi tutto da ricercare, più o meno trasposto, nelle sue opere, secondo una rispondenza e uno stile quanto mai fedeli, intendiamo significare che quel « diario » non viene meno, né d’altronde potrebbe, al proprio carattere dannunziano e anzi lo conferma superlativamente, con tutto il fasto e cioè con tutto il rifacimento o trasmutamento poetico di cui abbisogna. « Quanto mi piace — son parole sue, nelle Faville del maglio, I 253 — che la natura abbia privilegiato me per adunare mescolare trasmutare sublimare in un attimo le più remote e diverse e prodighe e peregrine ed esquisite essenze dello spirito! ».
La stessa nascita dei grandi miti dell’Alcione è, in certo senso, legata alle sue quotidiane avventure. Nel Secondo amante di Lucrezia Buti ricorderà: « Era il tempo dell’ebrietà di Alcione. Era il tempo di quelle metamorfosi immortali. Ogni giorno mettevo la sella a un cavallo balzano da tre ma non alato; e me n’andavo a passar l’Arno; o me n’andavo verso la Giogana, verso « il gran giogo » a bevermi un sorso della Fonte Fredda, a tentare un galoppo alpestre sul Prato al Soglio. E ogni giorno mi trasfiguravo nell’estro d’una laude eterea come una lodola o muscolosa come una lonza». «Alcione — commenterà più tardi Solmi (nell'Omaggio della rivista Letteratura) —, e trattandosi di D’Annunzio la cosa suona strana e quasi scherzosa, non è, dopo tutto, che il diario lirico d’una estate marina ». Ma tutte quelle quotidiane avventure il poeta le riscatta e liricizza nell’assunzione mitologica. Assunzione che ce le fa riguardare, con lo stesso Solmi, come « amplificazione, celebrazione dell’esperienza individuale, chiamata a vibrare oltre di sé, in un mondo esemplare, voluttuoso ed eroico ». Mondo che esclude alle origini la possibilità di un « diario », di un « giornale » che valga come « testimonianza » d’« amore vigilante e fedele», come prova persuasiva della « sincerità profonda », della «verità inoppugnabile». Da parte di D’Annunzio un « diario » vero e proprio sembra un non senso, una contraddizione. E anche a volerlo riguardare come una prima stesura, come una specie di canovaccio (a ciò tentati dall’utilizzamento parziale già operatone dall’autore nel Forse che sì e nelle Faville), il Solus risulta già truccato per la funzione stessa cui l’autore lo destina mentre lo scrive. E si potrebbe aggiungere che la sua parte più brutta è dovuta alla libertà di cui D’Annunzio ha voluto approfittare illudendosi di stendere un « documento ».
« Troppi esempi oramai concorrono alla definizione e alla descrizione del diario, al punto che non aspettavamo il D’Annunzio diarista a nessuna o quasi di quelle intere e precise misure: a meno di volgere il Notturno e più il Libro segreto a toni diaristici, ma la differenza è appunto di tono. Alla fine il Notturno, il Libro segreto cadono sotto la definizione dedicata ai tomi delle Faville: « studii »; e l’esercizio esclude il «diario»: così ha giustamente osservato Giancarlo Vigorelli (in Campo di Marte, 15 maggio 1939). Senonché il Solus non tiene affatto dello « studio » e già D’Annunzio, a quel fine, ne avea, da buon giudice, ricavato tutto il ricavabile. Non più di poche paginette; e del resto tali da sembrare inserite nel Solus in un secondo tempo o giustapposte. Ma chi entrerà mai nel segreto d’uno scrittore? Meno che meno in quello di D’Annunzio.
La poesia in dialetto, contrariamente a quella in lingua, abbisogna della «voce». Un Ungaretti dialettale non basterebbe leggerselo con gli occhi per intenderlo e gustarlo a pieno. E questo non accade solo a chi non possegga un dialetto proprio o si provi a leggere poesie in un dialetto diverso dal proprio. Nella poesia dialettale tutto s’assomma nell'assoluto d’una ineffabile musicalità e si ha come l’impressione d’un che d’estemporaneo. Da ciò, a volte, certa sua più facilmente raggiunta beatitudine e, di conseguenza, certo suo maggior potere di fascinazione.
Così v’ha poesie in lingua che quasi le diresti scritte in dialetto. Per esempio, molte di quelle del Metastasio. Così non per nulla Salvatore Di Giacomo fu naturaliter settecentista e vittoriosamente nuovo libero aereo.
Enrico Falqui
Collezione: Diorama 07.06.39
Etichette: Enrico Falqui
Citazione: Enrico Falqui, “ARGOMENTI,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2588.