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Titolo: Dalla citta di ieri a quella d'oggi

Autore: giuseppe Prezzolini

Data: 1939-05-31

Identificatore: 1939_170

Testo: Dalla città di ieri
a quella d'oggi
Curiosità e cose serie all'Esposizione di Nuova York - Nulla di fatto nel padiglione francese - Il gran bazar delle utopie
Nuova York, maggio
La Dea Roma domina placidamente gran parte dei padiglioni stranieri. Sta sopra l’inglese. Sorpassa il francese. Si vede di là dal romeno. Colpisce dal piazzale delle nazioni.
Eretta dall’altra parte minacciosa, gesticolante, con la torcia rossa dell’incendio bolscevico nella destra, sta la statua del sovietista, che la Russia ha innalzato, e che potrebbe servire d’ammonimento agli Americani, se gli Americani fossero oggi in vena di capire.
La Dea Roma domina dall’alto del padiglione italiano.
Seduta e calma.
L’altro in piedi e gesticolante. Rabbioso.
Due mondi opposti, anche qui, dove i bonari Americani vorrebbero metter tutti d’accordo.
E il disaccordo nasce sotto i loro occhi, senza che se ne accorgano: e per loro suggerimento: — Venite tutti; la Dea Roma e il sovietista, la legge e l’arbitrio, la natura e l’astrazione, la tradizione e l’ignoranza.
Sotto questo contrasto stanno il Tempio di « tutte » le religioni, come sarebbe a dir di nessuna, la succursale della Società delle nazioni, la democracittà, e il Tribunal della pace: il bazar delle utopie.
Il popolo italiano
Il padiglione italiano ha un gran buon successo. Non ci sono cifre ufficiali del numero dei visitatori, perchè non si paga alla porta d’entrata: ma qualche rilievo ha permesso di contare mille e cinquecento persone in mezz’ora; e un amico mio, che per suo dovere ci passa la giornata, m’ha detto che anche nella giornata di pioggia che s’ebbe non sono passate per la sala dove stava meno di venticinquemila individui. Più del doppio previsto.
Gl’Italiani erano preparati a una mostra di questo genere, e direi «allenati » da quelle riescitissime manovre che eran state le recenti Esposizioni, da quella della Rivoluzione Fascista a quella della Romanità. Questo saggio non stupisce noi che le abbiamo viste in Italia, ma fa strabuzzar gli occhi agli Italo-Americani e agli Americani di tutti i colori e di tutti gli accenti che visitano il padiglione italiano.
Sono escito contento di essere Italiano.
Non ho potuto fare un confronto col padiglione francese, perchè appena fatto capolino nell’entrata si doveva escire: c’era un bel cordone, e di là da quello alcuni operai sonnacchiosi stavano aprendo casse.
Ma ho fatto un paragone col padiglione inglese, che è aperto, e che è bello.
L’impressione che se ne ha è questa: il padiglione inglese è la mostra d'un paese aristocratico. S’inizia con la corona del re, e gli inservienti sono vestiti da lacchè dell’antico regime.
Il padiglione italiano è la mostra d’un paese dove si pensa al popolo, si va verso il popolo, e dove il popolo, cónta. Noi non abbiamo esposto le armi e i blasoni degli Sforza, Visconti e Peruzzi, per onorevoli che potessero essere; l’Inghilterra invece fa mostra nell’entrata delle bandiere e degli stemmi che le case nobili della sua storia hanno mantenuto.
La direzione indicata agli esecutori del padiglione italiano era quella del «popolo italiano», ed è stata bene seguita con fedeltà. Nel padiglione si vede il nostro popolo che lavora, che fa figli, che combatte e che aspetta. Aspetta una cosa alla quale nella « Città di Domani » (tema della Esposizione) non si è pensato: aspetta la giustizia.
Ho voluto tornare all’Esposizione di domenica. Anche il tempo era indomenicato: un bel sole, una bell’aria fresca. Son partito dal quartiere dei neri. Ce n’era fuori più del solito. Seri, seri, colle mogli, coi figli per mano. Nell’omnibus dove son salito ne ho trovato uno giovane e contento: aveva una giacca a scaccherelli crema e neri, una camicia blu, una cravatta rossa, e un garofano di tela dello stesso colore all’occhiello, con alcuni ramettini verdi per contorno. È sbarcato anche lui all’Esposizione. M’ha tenuto una gran compagnia. Non l’ho potuto lasciare con l’occhio. Passavano case e casette e casipole, e stazioni di benzina, e ci si strofinava ad altri omnibus panciuti, e tutti i tetti neri delle automobili luccicavano sotto il sole come corazze di coleotteri, volando via a destra e a sinistra; ma quel negro così allegro nel suo vestito mi attirava talmente che non vedevo altro. Era una commedia intera, lui da solo. Si sbirciava ogni tanto il garofano, di sopra in giù, come per guardarsi se l’aveva ancora. Ci faceva dialoghi, ci poneva le sue speranze, gli pareva una bandiera. Se avesse avuto odore, l’avrebbe odorato.
Quando mi son mosso per andare a prendere l’omnibus che conduce all’Esposizione e parte dal quartiere dei negri, detto Harlem, vedevo da lontano nella centoventicinquesima strada un fluttuare di bandierine e di folla; le botteghe eran chiuse, per via della domenica, e non mi sarei meravigliato se avessi visto una fanfara del dopolavoro passare per là. Che cos’è gran parte di Nuova York, se non un immenso dopolavoro?
In una metropoli così grande i negozi più dorati, che son capaci magari di esporre una mostra surrealista dei loro prodotti, incastonano tiri a segno, biliardini d’azzardo, cabine binoculari dove si vedon fotografie di donne che si spogliano, bilancie e misuratori della forza del pugno umano e altre simili attrazioni, che appena nelle fiere di villaggio si riscoprono ancora da noi.
E così accade nel reparto divertimenti dell’Esposizione stessa, dove, salvo lo spettacolo della Acquacade, con le sue cinquecento ragazze, si trovan tanti baracconcini ingenui e capziosi, coi titoli solleticanti e l’interno sterilizzato.
I provoloni e la Corona inglese
In fondo al padiglione italiano, nella parte semisotterranea, tre volte al giorno si raduna una gran folla nella sala della Snia-Viscosa. È una bella e grande aula, con le pareti tappezzate di rotoli di stoffa, che illuminati da dentro, fanno un colonnato variopinto e gradevole; in fondo ad essa una gradinata da villa italiana scende, divisa per mezzo da una discesa di stoffe, come da un canale di acque. Dai due lati, come dalle scene di un teatro, escon fuori, ad una per volta, graziose indossatrici che si avanzano, salgono alcuni gradini, si rivoltano, si mostrano di fianco, si levano qualche volta la giacca o il bolero, scendono e ritornano via. Donna Cora dei principi Caetani, che ha ideato questa sala, è una signora che ha capito che cos’è l’America, e sa eseguire quel che ha capito con gusto d’artista. Un ottimo numero del padiglione.
L’annunzio dell’Esposizione 42, che occupa l’entrata del padiglione italiano è forse un po’ misterioso ed enigmatico, nella sua mosaica visione di antico e di moderno, di forme di palazzi e di figure simboliche; ma va benissimo così. Il pubblico è colpito, si domanda che cos’è e lo scopre; e l’Esposizione 42 gli rimane più impressa che se fosse stata annunziata con un cartello chiaro come quello d’un passaggio a livello.
Anche i provoloni e i salami posson diventar elementi decorativi. Nelle loro forme ingigantite due bastano a riempire una vetrina, e vi assicuro che l’effetto artistico, per conto mio, non è minore di quello della Corona dei Re d’Inghilterra, di molto banale fattura.
Il bar è decorato da una serie di botti, botticelle e botticini di varie grandezze, ma dello stesso colore, coi loro zipoli in fuori. Botti sono le poltrone, e a botti i divani.
Le più grandi attrazioni
Parca e buona la raccolta dei quadri e delle sculture; semplice ed eloquente la sala del libro; varia e attraente la mostra dei tessuti, già conosciuti in America; parlante e seria la pubblicità delle Poste e Telegrafi, del Turismo e delle Comunicazioni.
Se dovessi fare una critica, ne troverei una sola: che varie volte le cifre son date in « chilometri » e in « ettari », misure sconosciute agli americani. Insieme con le parole bisognava tradurre i simboli, che qui sono « miglia » ed «acri».
Quanti sono gli Americani che impareranno un po’ della loro storia dalla prima sala del secondo piano? In essa con libri, fotografie e riproduzioni di documenti sono illustrati gl’italiani che hanno contribuito alla grandezza di questo Paese o l’hanno collegato con l’Italia, da Cristoforo Colombo che lo scoprì a Marconi che gli portò il dono della comunicazione eterea.
C’è Vigo e Padre Kino, Mazzei e Beltrami, che regalarono con le loro scoperte e con i loro sacrifici, regioni intere, grandi come l’Italia, agli Stati Uniti: o aiutarono a difenderle contro gli inglesi.
I padiglioni che ottengono il massimo successo sono quelli della Fabbrica d’automobili «General Motors », della «Città di domani » e della « Compagnia americana di telefoni e telegrafi». Una spiegazione umana si potrebbe trovare nel fatto che due di questi padiglioni offrono spettacoli o vantaggi gratuiti: la prima fa girare in una poltrona o in automobile un percorso, dal quale si vede un panorama di autostrade ideali; la terza sceglie fra le persone presenti un certo numero di fortunati che hanno il diritto di telefonare gratis in qualunque città degli Stati Uniti, e questa specie di lotteria attira molta gente che ha parenti lontani. Quanto alla « Città di domani » è il padiglione centrale e il cuore dell’Esposizione, perchè dimostra il tema di essa.
C’è un lamento generale: l’Esposizione è troppo grande, e nonostante le cinquantamila panche, molte delle quali all’ombra, chi voglia visitare molti padiglioni si trova presto stanco. Gli Americani non son abituati a fare strada e scale a piedi; e i trasporti interni con torpedoni, una ferrovietta e varie poltrone spinte a braccia sono numerosi, è vero, ma cari e non rapidi.
Anche il padiglione dell’Elettricità sceglie alcuni visitatori ai quali offre una televisione gratuita; ma la televisione attira assai meno della telefonata gratuita, perchè sono pochi coloro che posseggono un apparecchio di ricezione.
Molti padiglioni hanno cinematografie gratuite, ma mostrano pellicole tecniche, e non divertenti.
La Città di domani
La « Città di domani » non è che una esagerazione di quella di oggi che si vede a Nuova York: immensi grattacieli e grandi parchi. Ma siamo proprio sicuri che questa sarà la città dell’avvenire? Ford non lo crede. Il grattacielo è stato un accidente dovuto all’esiguità dello spazio dell’isola sulla quale è costruita la parte centrale di Nuova York. Ma nel futuro non si sa se nuove scoperte elettriche non permetteranno una dislocazione delle case, ed una più salutifera dispersione delle masse umane, che crea nella città odierna tanti problemi di trasporto, di igiene e di comodità. Può darsi che la « Città di domani» resti come il più brutto sogno che l’umanità di oggi abbia fatto.
Quando lascio l’Esposizione con un lungo treno, che scavalca mezze città, doppi fiumi e si buca un passaggio sotto terra per escire alla luce delle lampade elettriche nell’imitazione delle Terme Romane che si chiama Pennsylvania Station, non so veramente se sono stato nella « Città di domani ».
Avendo sbirciato il padiglione della Ceco-Slovacchia, e l’Ufficio di rappresentanza della Società delle Nazioni, mi è parso piuttosto di esser stato nella «Città di ieri ».
Quando ritorno dentro Nuova York, mi accorgo di essere ancora in una Esposizione mondiale, ma sul serio, i palazzi son di pietra o di mattoni o di cemento, e ci saranno ancora fra due o tre anni. La roba, all’incirca, è la stessa. Nuova York è una cosa seria. È la «Città d’oggi».
Giuseppe Prezzolini

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 31.05.39

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Citazione: giuseppe Prezzolini, “Dalla citta di ieri a quella d'oggi,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2587.