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Titolo: Leopardi romanziere

Autore: Lorenzo Gigli

Data: 1939-06-21

Identificatore: 1939_186

Testo: LEOPARDI
ROMANZIERE
Nell’edizione Le Monnier degli Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi, tratti dalle «carte napoletane », si trovano una quindicina di pagine di Appunti e ricordi stesi intorno al 1819, quando il poeta era sui ventun anni. Nell’autografo essi occupano sei foglietti staccati di carattere minutissimo; e i primi editori, fraintendendo rimpaginazione dei foglietti, sovvertirono l’ordine degli appunti, che è stato restituito invece in edizioni recenti delle opere leopardiane, quella, per esempio, curata da Riccardo Bacchelli e Gino Scarpa e quella curata da Giuseppe De Robertis. Codesti appunti costituiscono un abbozzo di romanzo, come ebbe già a notare il Chiarini molti anni fa: «... forse una specie di romanzo autobiografico sul genere del Werther e dell’Ortis ». Il romanzo avrebbe dovuto, dapprima, intitolarsi Eugenio, come indica un appunto « per opere da comporre » (sempre negli Scritti vari) che precisa: « Eugenio », romanzo (Werther), frammenti »; ma poi il romanzo cerca un nuovo titolo, che potrà essere: Vita di Silvio Sarno, o di Ruggero, o di Ranuccio, o di Vanni di Belcolle, secondo attesta un paragrafo del Supplemento generale a tutte le mie carte dove sono anche registrati cognomi e nomi di città da usare nella stesura del romanzo: Poggio, Ferraguti, Stellacroce, Villamagna, Santavilla, Verafede, Ottonieri, ecc. Un altro appunto sul romanzo, registrato nella citata edizione Bacchelli-Scarpa, dà questo titolo: Vita del Poggio; e in una nota dello Zibaldone si accenna ad « abbozzi della vita di Lorenzo Samo ».
Insomma, Eugenio, Silvio o Lorenzo Samo, Vanni o Poggio che dovesse essere, fra tanta folla di nomi sarà bene attenersi a quello che sembra il primo, Eugenio.
È curioso intanto notare che quanti studiosi si occuparono del Leopardi non approfondirono mai gli « appunti e ricordi » come abbozzo di romanzo, e lo stesso Chiarini adopera un cauto forse, mentre la parola romanzo è proprio uscita dalla penna del poeta. Eppure è facile vedere, leggendo gli appunti, che non si tratta di autobiografia, ma d’opera narrativa e in parte fantastica. Vi si parla esplicitamente di raccontare Con riflessioni, di proemio, di chiusa d’un capitolo; a tratti l’indicazione in fine, sul fine, nel fine, ti può servire per il fine si collega alla fine del protagonista («morì senza lagnarsi nè rallegrarsi ma sospirando com’era vissuto»). Il quale protagonista passa dalla prima persona alla terza («pensiero che queste stesse membra, questa mano con cui scrivo, ecc »;
« non aveva pianto nella sua malattia se non di rado... »), e scrive e detta lettere e s’è ammalato («malattia di 5 anni o 6 mortale » ) e muore ( « si potrà farlo morire in villa andatovi per l’aria »), e ci sono le chiacchiere del paese e la deposizione nel sepolcro di famiglia e via dicendo.
Questo tipo di personaggio tra l’io e Vegli era ancor vivo nel Leopardi nove anni dopo quando tornava al progetto modificandolo in un altro che ha per titolo « Storia di un’anima scritta da Giulio Rivalta pubblicata dal c. G. L. di » (in Scritti vari, pag. 385); e la dizione pubblicata è il solito espediente letterario utile all’epilogo, allorché si sarebbe finto che il povero Rivalta avesse deposta la penna per sempre. E perchè non cercare l’embrione del romanzo nelle bellissime pagine del Diario d’amore del 1817 (Scritti vari, p. 164) in cui sono raccontate e analizzate le circostanze e i moti del primo amore?...
Abbozzo di romanzo l'Eugenio è fuor d’ogni dubbio. E merita maggior attenzione di quella che finora gli è stata rivolta. L’argomento è d’altra parte così allettante che ci si stupisce non abbia tentato prima i critici. Considereremo quindi come una « novità » il libro di Manlio Dazzi su Leopardi e il romanzo (ed. Bocca, L. 15), che si propone non di tentare un arbitrario ordinamento degli appunti leopardiani, una sentimentale ricostruzione e incarnazione dell’avventura terrena di Eugenio, bensì di illuminare in ogni parte quest’angolo, si può dire, sconosciuto dello spirito leopardiano.
Negli scritti contemporanei alla traccia del romanzo, specie nello Zibaldone, il Dazzi ha raccolto quanto poteva servire a illustrarne i singoli motivi. Naturalmente il protagonista è il ritratto del Leopardi, il quale della propria vita prende un tratto intorno al 1817-18; e con lui fan gruppo una ventina di figure ricalcate in parte sulla realtà, come il padre e la madre di Eugenio rappresentati con quattro tocchi per ciascuno che bastano a far pensare ai genitori del poeta. Esclusa invece è Paolina come personaggio, mentre è fatta larga parte a Carlo sebbene come figura di secondo piano. Poi si possono identificare nel personaggio di Gentiioni la caricatura di Volumnio Gentilucci, cavalier servente della nonna paterna di Giacomo, la quale abitava il piano superiore del palazzo di Recanati; in donna Marianna la zia Antici; in Don Vincenzo il pedagogo Diotallevi; in Ercole un prozio paterno; nella Millesi la Geltrude Lazzari... Personaggi che sono sentiti non come astrazione, ma in una vita sceneggiata.
Ma il nucleo centrale è la Teresa, morta giovanissima; ed è evidente che è questa morte soprattutto che si inserisce nella vita anch’essa minata di Eugenio. Gli avvicinamenti di Teresa viva ad Eugenio sono minimi; eppure essa è la donna più presente del romanzo. È Teresa Fatterini, la figlia del cocchiere di Casa Leopardi, morta a ventun anni non compiuti nel 1818. Nel romanzo di Eugenio il Leopardi si proponeva di raccontarne la storia. Un appunto infatti dice: «Storia di Teresa da me poco conosciuta e interesse ch’io ne prendeva come di tutti i morti giovani in quello aspettar la morte per me ». È lecito pensare che la storia di Teresa, giudicando anche dalla trasfigurazione che riceverà nelle varie poesie (a Silvia... ) da lei ispirate al Leopardi, dovesse essere soprattutto la storia di quel sentimento d’amore che suscita in Eugenio.
Un’altra donna del romanzo è una « giovine di piccola condizione, bella ma molto allegra »: una fanciulla che abitava in vista dei giardini del palazzo Leopardi. Eugenio fa dei sogni su di lei, e gli par che l’amore «lo avrebbe proprio eroificato » e nota « cose — nei pensieri in quei giorni» che si possono infatti trovare nello Zibaldone e sono tra le più nobili sull’amore; mentre a commento delle rêveries può essere citato quel brano del «Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare » nelle Operette morali che dice:
« Ho notizia d’uno che, quando la donna che egli ama se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine che il il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae ».
Nota a questo punto il Dazzi: « Nella rappresentazione del suo mondo amoroso e del suo mondo di sentimenti in genere, l’Eugenio doveva esprimere quel vastissimo e serio vibrare di desiderio-pena che è, per il Leopardi di quattro anni dopo, in ciascun punto della vita, e specialmente quando l’uomo, per esser giovane, è in istato di maggior sensibilità ed esercizio di vita ».
Fra tutti i sentimenti, il più vivo del romanzo è certamente quello della morte. L'Eugenio è infatti il romanzo dell’aspettazione della morte; non un’aspettazione statica, ma mossa e commossa, a volte rassegnata e dolente, a volte disperata e ribelle. La ferma credenza di dover morire entro due o tre anni scende nel Leopardi diciassettenne, ed è quella che gli detterà il frammento della cantica sull’appressamento della morte citata più volte nel romanzo aberrato; il cui impulso (come il Dazzi dimostra benissimo negli ultimi capitoli) è venuto esaurendosi quanto ai motivi nella lirica leopardiana, mentre quanto alle situazioni perdura, dentro certi limiti, in essa.
Resta il fatto che, con tutta la voglia, le qualità e le idee del Leopardi in vantaggio del romanzo, il romanzo non fu scritto. Che cosa lo impedì? Sappiamo solo questo: che l’intuizione balenata all’animo e al pensiero artistico del poeta si concretò in una traccia. Il romanzo vive solo lì, l’intuizione s’è concretata così e non più. E d’altra parte quella trama d’un giovane malato che attende la morte poteva incarnarsi in una narrazione vera? Se mai, risponde il Dazzi, « in una narrazione prevalentemente lirica, cui la realtà per così dire, esterna e viva non avrebbe mancato di dare un sapore di cosa calata nella vita. Un romanzo lirico... »
Lorenzo Gigli

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 21.06.39

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Citazione: Lorenzo Gigli, “Leopardi romanziere,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 12 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2603.