I piccoli italiani di Londra (dettagli)
Titolo: I piccoli italiani di Londra
Autore: Mario Pettinati
Data: 1939-06-21
Identificatore: 1939_192
Testo:
I piccoli italiani di Londra
La bella e modernissima scuola per i connazionali nella capitale inglese - Un passato miserando che scompare per volontà del Fascismo
Londra, giugno
Mi hanno raccontato che quando Luigi Rava — allora Ministro dell’Istruzione — venne a Londra e fu condotto a visitare un tipico quartiere italiano (che in quell’epoca si annidava in un lurido dedalo di stradicciole e vicoletti nascosti ai confini della City), ciò che più lo impressionò fu che nemmeno uno di quei ragazzi, che aveva visto giocare nei cortili e nelle strade e che portavano tutti nomi del nostro paese, parlasse una parola d’italiano.
« Ma fra cinquant'anni — protestò il Ministro a un vecchio vice console che l’accompagnava — non ci saranno più a Londra degli italiani se andiamo avanti così. Non vi è dunque una scuola italiana a Londra? ».
Una proposta « agli atti»
Il vecchio ex vice console (che vive ancora e mi ha raccontato quest’episodio) non sapeva come fare a rispondere al Ministro. Sì, una scuola italiana c’era, ma, Dio, che scuola! Una specie di cantina, un paio di aule sudicie e abbandonate ove di sera, soltanto di sera, come se si avesse vergogna, due coraggiose insegnanti private, a prezzo di mille sacrifici, riunivano i pochi marmocchi della strada e cercavan d’insegnar loro che « Italia » non si scrive « Itaglia » e che le scimmie (quelle che accompagnavano gli organetti di allora) non nascono al Colosseo nè i maccheroni sono frutti di una pianta napoletana. Una scuola c’era, ma chi avrebbe avuto il coraggio di visitarla e tanto meno di farla visitare ad un Ministro dell’Istruzione? Così è che il Ministro Rava tornò a Roma riferendo al Presidente del Consiglio che a Londra bisognava creare una scuola e presentò, a quanto pare, una lunga relazione che inviò in copia anche al Ministro degli Esteri e fu riassunta dai giornali.
Poi più nulla, o quasi nulla, giacché per giungere ad una scuola, ad una vera e propria scuola italiana che raccolga sotto un unico tetto i bimbi della nostra Colonia e permetta ai babbi ed alle mamme italiani di Londra di far educare i loro figliuoli nella sana atmosfera della nostra Patria, bisogna attendere quasi mezzo secolo, bisogna lasciare che si sfascino Ministeri e Ministeri, che si spezzino le muraglie di goffa burocrazia che relegavano le « scuole all’estero » fra gli « eccetera » dei bilanci dell’Istruzione, bisogna attendere insomma che sorga, con Mussolini, tutto l’ardore di un nuovo dinamismo italico e che muova da Roma fascista il rullo compressore del « lo voglio » che appiana ogni difficoltà e sbaraglia ogni titubanza.
Oggi la Scuola Italiana di Londra e un fatto compiuto.
L’istruzione è un diritto di tutti
Come vorrei che Luigi Rava, — i cui sogni rimanevano così ostinatamente opposti alle disponibilità finanziarie dei suoi tempi — e come vorrei che mio nonno, Vincenzo Troya, gloria piemontese, l’illustre pioniere della pedagogia italiana, avessero potuto esser ieri con me quando — quasi per caso — mi sono trovato trasportato nella palazzina di Park’s Gate che ospita il primo « Istituto scolastico italiano di Londra ». Quale ambiente radioso, sereno, meticolosamente lindo e ordinato: quale profusione di aria e di luce, quale fastidiosa cura nei più piccoli particolari, dal cavallo a dondolo ove una bambola viva di tre anni si culla mentre assorbe — dinanzi ad una immensa carta d’Italia — i nomi sacri delle nostre gloriose città, alle sedioline in metallo impeccabilmente laccate in rosa, sulle quali una dozzina di altre bamboline in carne ed ossa fanno addormentar, fra le fragili braccia, bambole autentiche di celluloide cantando loro (per impararla) la «ninna nanna della mamma italiana al suo bambino ». Dal primo all’ultimo piano, dalle classi infantili a quelle ove una dozzina di giovanotti e signorine si allena per l’Università, dalle camerate più affollate dèi « piccoli » a quelle più intime dei « grandi », ovunque lo stesso ambiente di quella calma serenità che invita al raccoglimento ed allo studio.
I « grandi », naturalmente, non hanno uniforme, ma per tutti gli altri, quelli fra i tre e i dodici anni, vi è — per i maschi — una tunica di seta grezza e una cravatta azzurro « Savoia », e — per le femmine — un grembiulino di seta grezza con un bel nodo anch’esso azzurro « Savoia » sia al collo che fra i capelli: lo stemma d’Italia, ricamato sulla manica, completa le due uniformi. Così vestiti tutti i figli degl’italiani di Londra sembrano e vogliono essere uguali: l’Italia fascista non conosce, come l’Inghilterra feudale, barriere di casta: a Park’s Gate siedono sugli stessi banchi ricchi e non ricchi, in una felice promiscuità di classi sociali che fa sgranar gli occhi agl’inglesi. Le porte della scuola italiana, di questa bella, fiorente, modernissima scuola, non si aprono, come quelle delle scuole inglesi, soltanto a chi può rintracciare qualche goccia di sangue azzurro o semi-azzurro nelle vene (come ad Eton o ad Harrow) o a chi può accompagnar la domanda d’iscrizione con un robusto assegno: nel paese della cosidetta « democrazia » è ancora una volta l’Italia quella che con questo « Istituto » aperto a tutti (anche agl’inglesi) afferma il sano, italiano e veramente democratico principio che la scuola è un diritto di tutti, una via aperta al libero ingegno e non soltanto alla borsa.
Fai di mio figlio un italiano
La scuola ha oltre cento allievi, ma il numero cresce di settimana in settimana anche perchè ogni volta che si fa una passeggiata collettiva nel parco c’è sempre qualche Mamma o qualche Papà inglese che si accosta e domanda di inviare il proprio rampollo a ingrossare le fila dei «little Italians» che « sembrano così orgogliosi della loro scuola ». Vi è, fra questi giovani italiani di Londra, un po’ di tutto: figli di professionisti e figli di commercianti, figli di artisti e figli di camerieri. Ho parlato con il bimbo di uno dei personaggi più influenti della nostra Colonia e con quello di un piccolo « barista » del Soho; siedono entrambi sullo stesso banco. Le rette sono relativamente miti e in ogni caso la metà di quelle praticate dalle scuole inglesi. Da quando questa scuola si è aperta, mi è stato detto, non vi è un solo membro della nostra Colonia — anche di quelli che non hanno esattamente cominciato la loro carriera uscendo da un’Università — che non senta l’orgoglio d’inviare il proprio figlio (sopratutto se maschio) agli studi italiani. Cuori rozzi, se volete, quelli di questi Italiani che son giunti qui chissà come e chissà quando, che hanno combattuto e sofferto chissà quali lotte e quali dolori, che hanno ingoiato chissà quanto fiele e quant’amarezza in una battaglia ove lo sforzo di ogni passo è triplicato dall’ostilità di mille barriere, cuori rozzi che a furia di bazzicare con gl’inglesi e d’isolarsi con loro hanno finito quasi per dimenticare la nostra lingua, ma che stringono al petto, come una reliquia, il passaporto azzurro e che, quando hanno saputo che si apriva una scuola italiana, hanno accompagnato i loro figlioli dal Preside per raccomandargli: « Fai di mio figlio un italiano ».
Propaganda? No. Non propaganda; cuore: poiché chi spinge
— se non il cuore — questa gente non sempre ricca nè sempre ricordata dal proprio paese ad attaccarsi così tenacemente alla Patria lontana? Chi spinge ad inviare ogni mattina a chilometri di distanza più di cento piccoli allievi che potrebbero tanto più comodamente esser inviati nelle scuole inglesi del quartiere?
Ecco qui un bel maschietto di otto anni, nato e cresciuto all’ombra di Piccadilly, che — me lo confessa egli stesso — un anno fa sapeva soltanto dire « no » e « sì ». « E adesso? » — « Adesso... Volete sentire? ». E via con un « canto al Duce » recitato con tanta vigorosa convinzione da far invidia a un Ruggeri. Ecco una bimba di dieci anni che si abbandona con tanta grazia a recitare la « poesia della Mamma » da far pensare a una futura Eleonora: ecco un terzo piccolo allievo che mi parla di Garibaldi, ecco un quarto che mi descrive l’esilio londinese di Mazzini.
Tutti rispondono in italiano, un italiano un po’ esotico, se volete, un italiano nordico e gutturale che dimostra l’immenso sforzo cui deve sottoporsi questo valoroso corpo d’insegnanti che ha il non facile compito di educare nell’atmosfera culturale italiana ragazzi nati e cresciuti in un'atmosfera esclusivamente inglese, ove il « yes » ha forzatamente fatto esulare il «sì ». Ma che importa? Che importa se questo « yes » scappa ancora nel bel mezzo di una frase troncata a metà o se « I can’t remember » rimpiazza di quando in quando il « non mi ricordo più? ».
E sapete qual è in questa scuola di piccoli italiani di Londra la punizione più grave, quella che finora si è minacciata soltanto senz’applicarla mai, tanto apparirebbe immensa ed infamante se qualcuno se ne rendesse davvero meritevole? Quella che di un fallo possa esser informato Mussolini. « Lo scriverò al Duce », minaccia la maestra, ed ecco due lacrime luccicar negli occhi in cerca di perdono, perchè Mussolini, per questi ragazzi che non lo hanno mai visto e che forse non lo vedranno mai, è qualcosa di così immenso e di così sacro che guai a farlo soffrire. « Mussolini — spiega la maestra — sta preparandovi un’Italia così grande e così bella che quando la vedrete la troverete assai più grande e più bella dell’Inghilterra».
« E vi saranno anche i sottomarini »? — domanda un bel ragazzo di dodici anni, figlio di veneziani, che conserva evidentemente l’amore atavico del mare.
« Certamente, e perchè? ».
« Perchè quando sarò grande voglio diventare un marinaio nei sottomarini italiani ».
I missionari dell’Italia
Ho parlato degli allievi. Dovrei ora parlare e descrivere i maestri: dovrei cominciar dal Preside — il prof. Magnacavallo — sul cui capo è caduta una neve precoce, ma nel cuore è rimasto un fuoco di bersagliere; dalla direttrice, la signorina Fantozzi, che, giovanissima, ha già portato in Egitto, in Tunisia e in altre parti del mondo la fede ardente della sua missione, e continuare poi con tutte le maestre: Maria Favini, Luisa Materassi, Cesarina Tincolli, e i maestri: Umberto Forti, Pietro Bottini, Carlo Caprera, per finire a quelle due pazienti e ammirevoli suore che, sotto l’anonimo di Suor Franca e Suor Andreina, compiono fra questi piccoli connazionali una delle più nobili missioni femminili, quella della maternità spirituale, e a Padre Negrini che completa con l’insegnamento religioso, il programma della scuola fascista, che non ammette aberrazioni di velenoso laicismo. Ma che contano i nomi? Questi professori e queste maestrine, come i missionari, amano nascondersi nell’ombra: non è il nome, è l’opera quella che vale. Domani forse, come foglie al vento, essi partiranno per altri paesi ancora più lontani. La loro missione è un po’ come la nostra, eterni girovaghi nel mondo.
« Vi sono dei piccoli Italiani in tutto il globo e vi è tanto ancora da fare... », mi dice una maestrina così giovane che pare essa stessa ancora una « Piccola Italiana ».
È vero. Ma confesso che dinanzi a lei mi sono sentito piccino piccino come un nano.
Mario Pettinati
Collezione: Diorama 21.06.39
Etichette: Fuori Diorama, Mario Pettinati
Citazione: Mario Pettinati, “I piccoli italiani di Londra,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2609.