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Titolo: Taccuino dell’estate

Autore: Giovanni Comisso

Data: 1939-11-04

Identificatore: 1939_245

Testo: Taccuino dell'estate
È una giornata di mezza estate. Le frutta sono piccoline e verdi sugli alberi pieni di foglie accasciate. Nella notte ha piovuto con insistenza come d’inverno ed il mattino è stato d’un azzurro chiaro, con nubi come frastagli d’onde di madreperla. I fastigi delle case spiccavano contro l’azzurro e qualche statua bianchissima come un’apparizione. Certe donne che in tempi lontani già furono nostre spensierate amanti si ritrovano o al davanzale o alla fontana occupate nei loro mestieri di casa, e ci si guarda come se non ci fossimo conosciuti mai. Pure così, questi monti, questo sole, questo fiume ci riappaiono rinnovati sempre, solo con qualche tenue ombra di ricordo di giorni passati. Nel meriggio il caldo crebbe tutto attorno nel cielo che si velò di fumo sempre più denso e la penombra passò sulla terra cupa di verde. Verso i monti si schiariva l’aria nelle vallate. Poi incominciò a piovere. Credo che non vi sia cosa più dolce di una tiepida pioggia sui prati estivi. Conviene togliersi il cappello e lasciarsi inumidire la fronte. I pensieri si gonfiano nelle perfezioni possibili, con la stessa gioia della maturità d’un frutto. La Vecchia calce dei muri assorbe assetata la pioggia, le rondini volteggiano stridendo giù dal cielo a rasentare le alte cime degli alberi. I grandi casamenti bianchi con le innumerevoli finestre chiuse sembrano arche galleggianti sul disfacimento della terra sotto gli scrosci. Un cipresso nereggia immobile su da un cortile chiuso, ed altri alberi dondolano al di là del ponte di ferro sul fiume pieno di brividi come una sottile pelle di cavallo in trasudore. Non conviene sostare qui dove è asciutto, sotto la tonda massa delle frondi. Proseguiamo sotto le spruzzate tiepide che le nostre spalle pur anelano di sentire senza riparo di stoffa. Nella sera sotto ad un portico sostavano i soldati e le donne erano agitate e più d’una contesa si intese oltre là cancellata di ferro. Poi le risate scoppiarono come in un teatro.
* * *
La pioggia del giorno avanti doveva aver fatto nascere le libellule. Una splendette improvvisa davanti i miei occhi, nel suo volo distratto. Altre sostavano sull’erba nata sul muretto. Le formiche erano affaccendate tra mattone e mattone, tra i fili d’erba, fin sul sentiero. Le torri avevano riaperto i trafori delle loro celle campanarie incontro all’azzurro e le case riapparvero definite nel volume completo tra il sole e le ombre. Sul bastione sotto gli alti ippocastani i giovanetti del collegio giuocavano lungo i tronchi degli alberi. Più in là vi erano giovani operai che giuocavano anch’essi nell’ora di riposo. I corpi si ribaltavano sull’erba abbracciati. Giù dai bastioni le giostre, i baracconi con le bandierette di latta sui culmini. I carrozzoni verniciati di blù avvolti nel silenzio dell’ora meridiana.
* * *
Nell’attraversare una piazza accaldata ancora, nella penombra, accanto alle pareti alte della chiesa francescana abbandonata, dove gli antichi cavalieri della città si riposavano scolpiti sui coperchi dei loro sarcofaghi (v’era anche una giovanetta antica con la gonna accannellata, stretta alla vita e le gambe nette e snelle come una ballerina), mi parve d’intendere nell’aria come un coro d’angeli. Veniva da un cortile al di là del fiume. Erano voci chiare in un accordo di giuochi infantili nel cortile di un collegio. Come stormi di rondini nell’azzurro della mattina. La strada mi obbligava ad allontanarmi e presto un alto palazzo mi tolse ogni risonanza. Una fontana invisibile zampillava nel mezzo d’una vecchia piazzetta tra le case con le facciate dipinte di festeggiamenti e di battaglie gloriose. Un odore di frutta si sentiva dal portone di un magazzino. Immaginai aspetti d’erbe, ombra di vailette, scorrere di ruscelli con nere biscie inseguenti topi selvatici. Acre odore di volpe passata leggera vicino, grido monotono tra le frondi d’una quercia subito sfuggito e riudito al di là del colle, più fioco.
* * *
Temporale notturno. A bordo del Firenze, rada di Barbariga, giugno 1922. Cadono le saette, sul mare barbagli di luce. L’ombra del forte e degli alberi, mormorio irrequieto, tormentoso del mare, corde che cigolano. Pioggia che scroscia. Passione del capitano che si sveglia di soprassalto.
Il nostro popolo è perfetto, nulla gli manca come spirito e come opera. Gli manca soltanto chi lo sappia interpretare e guidare.
Latini: teste rotonde.
Arrivando a terra: l’acqua sporca. Sono contento perché ho perduto il lirismo. Per costruire anche in poesia occorre pietra dura.
Come stridono invisibili le rondini nei porti.
Non vi è segno umano al di là. Si può camminare lungo il mare col senso di non ritornare più, tanto il fantasma dell’ignoto che ti precede è dolce. Il mare si rompe ai tuoi piedi con una voluttà amara.
La questione economica non si può risolvere che coll’impero, ma in quale forma?
Vi è chi si occupa del passato, chi del presente, chi del futuro.
* * *
Notte d’agosto. Luna piena, ombra e silenzio nei giardini delle ville. La terra in pace. Viali in ombra con amori. Nelle caserme i soldati dormono ignudi. Osterie: tutti fuori a pigliare l’aria che viene dal fiume. Armonica e angurie sotto la pergola illuminata. Case colle finestre aperte, nella sala le conversazioni. Una carrozza leggera con due giovani esce per il viale illuminato. Vecchio cocchiere pensieroso: si consola nel trotto regolare del suo ubbidiente cavallo.
Ospedale: il ragazzo obeso, sensibile alla luce come una larva. Gli uomini infermi che sono contenti, perché non fanno fatica e hanno alle ore fisse il pasto pronto. I cuochi che si gonfiano di camorra e godono le cuoche, tutte le sere. I giovani medici appena laureati: orgogliosi dei loro camici bianchi, in vuoti conversari all’ombra. Le giovani infermiere avide della paga e delle mance che si assoggettano a fare lavacri immondi. Il direttore che telefona: « Ma voi cosa credete, che l’ospedale sia un albergo? Qui si accettano gli ammalati e non i non ammalati. Parlate più forte ché non sento ». L’impiegato calvo: un’eleganza ben mantenuta, con un senso d’ordine da scaffali. Le mani ossute, l’anello con brillante: l’occhio vi si allieta se il sole vi giuoca l’iridescenza, nella noia dei pomeriggi. Finisce con calma ogni lavoro, prima di dar retta ad un sopraggiunto che voglia parlargli. Scrive e si arresta a prendere l’ispirazione guardando fuori dalla finestra dove le lavandaie stendono al sole le lenzuola nel cortile.
* * *
Volto d’un uomo visto dopo mezzogiorno d’estate appena svegliato. Gli occhi si vedevano stretti sotto le pieghe della pelle come fosse sensibilissimo alla luce. Il naso duro e grande. I capelli come di un morto, aridi, ma ravviati con cura. Il suo volto semplice e roseo esprimeva tutto il vuoto interno subitamente.
Giovanni Comisso

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 04.11.39

Citazione: Giovanni Comisso, “Taccuino dell’estate,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 28 aprile 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2662.