Proserpina nella masseria (dettagli)
Titolo: Proserpina nella masseria
Autore: Francesco Lanza
Data: 1932-02-03
Identificatore: 1932_60
Testo:
Proserpina
nella masseria
Il cocchio entrò al galoppo nel cortile della masseria. A uno strattone delle redini, i cavalli si fermarono nel mezzo, scalpitando e mordendo il freno spumante, irta la coda e la criniera. Fumavano di sudore come camini, frementi del furore della corsa, con l’occhio opaco e allucinato, Le froge azzurre sotto il pulviscolo del fiato. Il branco stupido delle oche si sparpagliò all’impazzata, empiendo l’aria di strilli e di piume strappate dallo spavento. Accorsero al rumore i garzoni e il capo delle mandrie; Ascalafo, lo sguardo pronto e sornione da paraninfo, afferrò i cavalli per le briglie e fece rigirare il cocchio dinanzi la porta.
Plutone abbandonò le redini e, prendendo fra le braccia Proserpina, che teneva sempre stretta fra le ginocchia, d’un salto fu a terra: spossata dal pianto, dalle grida e dall’agitazione del rapimento, essa non oppose resistenza, le parve che non avesse più voce per inveire contro di lui.
— Ecco la vostra regina! — disse egli, sollevandola come un trofeo.
Gli uomini la guardarono interdetti, con un sorriso di servile compiacenza per il padrone al quale la nuova preda accresceva prestigio ai loro occhi. In un momento tutti quelli che erano nella masseria, i mozzi di stallla, i caciai, le massaie, si affollarono intorno, come al ritorno d’una caccia più fortunata, quando egli, pieno di sudore, stanco ed eccitato, ammucchiava ai suoi piedi la selvaggina uccisa, i daini, i cignali, gli istrici, Le lepri e gli enormi trampolieri del lago dalle ali di porpora.
— E’ la figlia di Cerere — aggiunge con voce gioviale e orgogliosa. — L’ho presa nei campi di Enna come una violetta.
Lasciando i cavalli, Ascalafo gridò:
— Un evviva a Proserpina: sia la benvenuta nel regno di Plutone!
Gli altri gli fecero coro e sciolti dall’impaccio servile si accalcarono con grida di festa, le donne con motti e complimenti nuziali d’antica arguzia agreste. I cavalli nitrirono, anche le oche blaterarono la loro gioia, avvicinandosi dinoccolate sui piedi dolci.
— Radunate tutta la gente della masseria — fece Plutone —, chiamate i mietitori con le falci e i mazzi di spighe, i pastori dalle valli con le zampogne e gli armenti, i bovari coi carri e i pifferi, le spigolatrici coi cembali e inghirlandate di papaveri:
tutto il mio regno renda omaggio alla sposa che mi decretarono gli dèi. Scannate i capretti d’un mese, tirate il collo ai pollastri, cogliete il miglior miele dalle arnie e i frutti più dolci dai rami carichi fino a terra, spillate il vino più antico, i moscati, quelli d’uva passa, il vino nero delle lave, e apparecchiate le tavole nel cortile. Oggi è festa per tutti: si fanno le mie nozze.
Proserpina si scosse, scivolò a terra e, puntando i piedi per liberarsi dalle braccia di lui, scarmigliata e rauca, gridò alla folla:
— Non gli credete! Non sono la sua sposa, egli m’ha rapita, m’ha portata qui a forza. Non vi rendete complici del suo misfatto: Cerere mi cerca, i miei parenti divini che abitano l’Olimpo scenderanno come nubi su questa casa. Temete voi l’ira dei numi, se egli non la teme.
Gli uomini tacquero, Plutone scoppiò in una risata:
— Daremo anche a Giove un posto alla tavola con uno dei suoi fulmini per forchetta, e ad Apollo faremo scrivere con una penna d’oca l’epitalamio. Orsù, Pomona, prepara da mangiare, io e Proserpina abbiamo fame.
— Non mangerò mai alla tua tavola! — essa gridò. — Giuro, e Giove segni il mio giuramento, che finché starò qui contro mia voglia non porterò cibo alle labbra.
— Bene — rise ancora Plutone. — Hai sentito, Pomona? Proserpina fanciulla non ha fame, ma domani la mia sposa farà onore alla tua cucina.
Pomona, cosi detta perché faceva pensare a dolci e succosi pomi, si avvicinò alla fanciulla e, ravviandole le chiome, disse :
— Consolati, Proserpina: se egli t’ha preso a forza, era decretato in cielo. Doveva rapirti per essere il tuo sposo. Tu sai a quale mascherata dovette ricorrere Vertunno per conquistarmi: era una cosa ridicola, ma senza di ciò non sarei mai stata la sua sposa. Sarai regina, come si conviene alla tua stirpe.
— Mai! Mai! — gemette Proserpina: aveva qualcosa di puerile e di cocciuto nella voce e nell’inanità del pianto e dei movimenti, che induceva al riso piuttosto che alla commiserazione.
Tenendola per i polsi, Plutone se la trascinò dietro nella sala comune della masseria, come un capretto che tirato suo malgrado scivola sui piedi inutilmente fermi. Ascalafo e Pomona li seguirono, gli altri si sparpagliarono per eseguire gli ordini. Era uno stanzone immenso, con camini agli angoli e soppalchi per gli arnesi da lavoro, e appesi al soffitto, con una corda che passando per una carrucola era legata a un anello al muro, perché si potessero far scendere e salire facilmente, grandi canestri dove si mettevano ad asciugare i caci, le ricotte e le carni salate. L’odore pizzicante e grasso della salamoia e della morchia impregnava l’aria. Un’alta porta metteva direttamente in comunicazione con la campagna. Si vedeva l’oro interminabile delle spighe, al quale la brezza del pomeriggio dava un lungo, immobile fremito di oceano. S’udivano, lontano, canzoni e il rumore e le voci degli uomini e degli armenti che lasciavano i campi per la festa.
Proserpina si guardò intorno smarrita: le parve che, avendo messo piede in quella stanza, vasta e tetra, ai suoi occhi agitati, come un carcere dal quale anche la contiguità della campagna sembrava irraggiungibile, non ci fosse più scampo per lei, che niente avrebbe più potuto liberarla. Si divincolò rabbiosamente, con le unghie e i denti assaltò il rapitore, riuscì a sfuggirgli dalle mani: ma Plutone, allungando il braccio, come il gatto col sorcio, la ghermì nuovamente. Prendeva gusto alle furie di lei come a un estro fanciullesco che rinfocolava il suo umore e il piacere di quelle nozze.
— Finché non sarà persuasa d’essere la tua sposa — disse Ascalafo — non la farai star ferma: ti graffierà, salterà dalle finestre, svolazzerà tra le spighe come una starna. Bisognerebbe impastoiarla.
L’idea diverti Plutone, ingrandendosi nella sua rozza fantasia: cercò intorno con gli occhi, e Ascalafo rapido corse a prendere una corda da un soppalco. Legò la fanciulla ai polsi, e questi alle caviglie e alle ginocchia, a panierino come si dice nel gergo pastorale.
— Ti calmerai, bella selvatica — le diceva carezzevole e sornione, come si fa coi bambini. — Ti farò assistere tranquilla, anche se non ti va, da un posto che nulla ti sfugga, da un vero trono aereo, allo spettacolo in tuo onore. Vedrai passare sotto i tuoi piedi il mio regno, il corteo della terra e delle stagioni. Ascalafo, metti giù un canestro.
Il servo sciolse la corda da un anello e fece scendere a terra uno dei canestri appesi al soffitto. Tolse i caci e le ricotte che vi si trovavano e pose nel fondo una pelle di capra. Plutone prese in braccio la fanciulla, e ve la mise dentro seduta, legandola ancora ai lacci che lo sostenevano, e tirando la corda la portò su, col capo all’altezza del soffitto. Essa gettò un grido, e piegando il volto sulle ginocchia pianse lagrime silenziose e ardenti.
Come non badando più a lei, egli andò a sedersi alla tavola, una specie di macina di mulino, che era nel centro. Ascalafo e Pomona portarono vasi di miele e di frutta, latte e vino, e un intero capretto cotto al forno. Con un colpo, lo squartò in due e si mise a divorarlo, bagnando i bocconi nel miele.
— Se ci hai ripensato — diceva intanto senza alzare lo sguardo alla fanciulla — non hai che da dirmelo e ti rimetterò a terra. Ma di costà forse la vista si gode meglio, e sei legata poi da quell’infausto giuramento, che Giove avrà certo segnato nel suo libro mastro. Quest’odore — e brandi una spalla del capretto — deve mettere fame: ma ti rifarai domani. D’altronde, ci stai come una picciona. Vedrai che non ti ci sentirai più contro tua voglia: lo sposo che aspettavi tremante di desiderio e di spavento sulle sponde del lago, cingendoti il capo d’asfodeli e di violette, sono io. Chissà che grilli ti aveva messo in capo quella zuccona di Cerere! Mi ti avrà dipinto fosco e terribile, la stessa villania fatta persona. Hai orrore di me, lo vedo, ma ancora per poco. Guarda i miei campi, senti il rumoreggiare degli armenti: sarai la regina delle stagioni e della terra, i tuoi piedi non s’involeranno mai dalle spighe e dai fiori. Eternamente giovine e rurale, ti canteranno i poeti.
Scoppiò in una sonora risata:
— Del resto, bellina, è molto più semplice di quanto non pensi.
Proserpina aveva sollevato il capo: vampe di vergogna e d’ira le salivano alla faccia, sentendo tutto il ridicolo al quale egli la esponeva. Vedeva i muscoli di quelle braccia, il torso gigantesco, veramente come di un dio, e all’odio e all’orrore si univa in lei una cupa, desolata ammirazione per quella forza brutale, primordiale come gli elementi, alla quale, ormai ne era certa, non poteva più sfuggire. Invocò ancora gli dèi, ma anch’essa sapeva che gli dèi sono divinamente sordi; desiderò, con una stanchezza mortale, che qualcosa d’impossibile e di non più dipendente dalla sua volontà si avverasse, che tutto fosse un sogno: ritrovarsi nuovamente sulle sponde del lago, tra le care compagne, come se nulla fosse successo, o svegliarsi a sua insaputa tra le braccia del rapitore, finalmente sposa di lui che detestava, purché quell’incubo finisse. Uomini e donne, variamente inghirlandati, si affacciavano alla porta e subito sparivano se essa si volgeva a guardarli. Suonavano pifferi, cembali e sistri, voci di donne provavano canti accompagnate dalle zampogne. Scendeva lentamente il crepuscolo. La dolcezza della campagna, l’epopea immemorabile della terra, fatta di voci vive e segrete che essa amava, le prese violentemente il cuore. L’orgoglio della stirpe si risvegliò nel suo sangue: quella turba di servi non doveva vederla in attitudine di vittima, ma di regina, quale era. Avrebbe voluto dire: « Scioglimi! », e restare nello stesso tempo separata da tutti e da lui, di propria volontà dove ora a forza si trovava, con quel regno di pastori e di bifolchi anche materialmente ai suoi piedi. Si raddrizzò, come le consentivano i legami, brillò nei suoi occhi lo sguardo altero e sicuro della dea.
Come avvertendo il mutamento di lei, Plutone batté le mani e gridò:
— Olà, si dia principio alla festa in onore di Proserpina.
Un uomo entrò, incoronato di frutti e vestito di spighe e di fronde, e con in mano una falce. Era Vertunno, che raffigurava l’estate.
Francesco Lanza.
Collezione: Diorama 03.02.32
Etichette: Francesco Lanza
Citazione: Francesco Lanza, “Proserpina nella masseria,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/316.