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Titolo: Qui si parla del diavoli e della carne

Autore: Lorenzo Gigli

Data: 1931-07-08

Identificatore: 42

Testo: Qui si parla del diavolo e della carne

E si parla anche d’altro; di fermenti del sangue, di sensibilità erotica, dell’amore e della morte: gli aspetti più caratteristici della letteratura romantica. Eminenza grigia, nientemeno che il marchese De Sade, il cui nome sino a poco tempo fa si pronunciava sottovoce, sebbene il Sainte-Beuve lo avesse già riconosciuto come uno dei maggiori ispiratori dei moderni. Oggi i surrealisti lo riportano alla ribalta, Io fanno degno d'apoteosi. In guardia, signori; se mai, tutto il suo merito « sta nell’aver lasciato dei documenti che rappresentano la fase mitologica, infantile della psicopatologia: in forma fiabesca egli dà la prima sistematologia delle perversioni ». Chi mette cosi le cose a posto è Mario Praz nelle prime pagine d’una sua curiosa monografia che isola uno degli aspetti fondamentali della letteratura romantica, anche se abbia carattere di corrente sotterranea. Basato esclusivamente su osservazioni raccolte per tre letterature, la francese, l’inglese e l’italiana, trascurando la tedesca e le slave, il quadro è imponente; la visione impressionante, la lettura da non consigliarsi alle anime candide, ma bastano il nome e la fama dell’autore e la sigla editoriale a togliere di mezzo ogni possibilità d’equivoco. Codesta monografia sui « fiori del male » ottocenteschi (Mario Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica - Ed. « La Cultura », 1931 - L. 40) è un grosso volume di 500 pagine, erudito, gonfio di citazioni, fitto di note, consuntivo d’un esercizio d’anni nei campi della poesia e della critica. Non par quasi da credere che basti la vita di un uomo a leggere tanto e a ricordare tanto; e quanto alla sottigliezza dei riscontri e alla finezza delle indagini filologiche e storiche, veda il lettore l’ultimo capitolo che rimette in discussione, ma con spirito e intenti nuovi, la questione delle fonti dannunziane: il Praz è giunto a scoprire qualche cosa di nuovo là dove sembrava che tutto fosse stato detto. Si sa che la materia è torbida, il fiato impuro; ma l’esplorazione del Praz non può venir confusa con le fatiche di sedicenti eruditi e scienziati cultori di soggetti scandalistici; e neppure coi parti laboriosi di quei positivisti e pseudo-moralisti di cui il lombrosiano Nordau può considerarsi il rappresentante più insigne e, ormai, più screditato. Che cosa vuol dimostrare il Praz, il quale rinuncia alla facile condanna di autori tormentati da ossessioni per tentar di vedere il fondo umano e universale che traspare pur dai loro parossismi? Che codesti parossismi e ossessioni, filiazione di quell’estetica dell’orrido e del terribile che s’era andata svolgendo sullo scorcio del secolo XVIII, penetrano a bandiere spiegate nella letteratura ottocentesca e di complicazione in complicazione dominano tutto il secolo, ricongiungendo Byron e Chateaubriand a Oscar Wilde e a D’Annunzio. Lo studio s’arresta alle soglie del novecento, sorpassandole solo per illustrare la protratta attività di autori che si son formati e maturati nel decadentismo. Ma, avverte il Praz, si sarebbe potuto facilmente seguire le propaggini di certe correnti decadentistiche fino all’epoca attuale, e riconoscerle per esempio in Bernanos, in Benoit, in Carco, in Kessel, in Lenormand, magari in quel Guido da Verona transalpino che si chiama Dekobra. Dunque il male è tutt’altro che sanato e Bisanzio ancor da debellare? Ma se l’infermità romantica dura da oltre cent’anni, e la diagnosi del Praz è quella d’un clinico provato, manca una più decisa messa a fuoco dello stato d'animo italiano in quell'ottocento che ha visto il miracolo unitario; perché romanticismo da noi ha un significato storicamente e moralmente diverso, e i nostri romantici non hanno avuto tempo di dilettarsi del perverso e del torbido essendo impegnati in faccende un poco più importanti. E allora non ci sentiamo di far loro colpa se si son messi tardi a prender confidenza con le letterature straniere: l’isolamento nel quale vivevano per mancanza di contatti culturali con gli altri popoli, può assumersi come etichetta d’un provincialismo miope e gretto, ma in realtà fu un cordone sanitario più solido di quello dei Due Sergenti e alla fine non venne fuori nessun maresciallo a farsi riconoscere come spada della giustizia e campione della pietà. I nostri si salvarono così dal contagio; e ai molti mali fisici e al satanismo letterario altrui noi possiamo contrapporre classiche armonie di pensiero e di stile, fior di salute e serenità di vita. Quando il male del secolo varca i nostri confini, il secolo è sul finire: e anche allora il nostro decadentismo assume aspetti e significazioni che non si posson confondere, si fissano in un nome e in una poetica dove si riversano molte correnti ma per perdere la loro autonomia nella violenza superba di un gran fiume; il quale cola giù verso il mare confondendo nelle proprie onde generose tutti i residui delle alluvioni confluite.

Dunque il gran male c’era, e noi si viveva all’ombra dei nostri campanili. Si cominciava a estrarre poesia da materie ignobili e ripugnanti, e il nostro Leopardi condannava la natura per inappagato desiderio di vivere, e il suo pessimismo era di quelli che non perdono di vista il corso delle stelle nelle azzurre profondità del cielo. Chi iniziò, dunque, la parata dei fantasmi rei? Chi sciolse il primo inno alla bellezza medusea intrisa di pena, di corruzione e di morte? Chi introdusse nella letteratura l’orripilante maschera satanica? Della voga del satanismo e del vampirismo fu responsabile in gran parte il Byron; e chi vuol guardare più addentro, scoprire le radici della pianta infetta, veda il capitolo del Praz sulle metamorfosi di Satana, dove la figura del poeta inglese è presentata nelle sue funzioni propiziatorie. Le varie incarnazioni dell’uomo fatale byronico durante il romanticismo passano da Mérimée e Nodier ai romanzieri d’appendice e si edulcorano in apostoli del bene con apparenze diaboliche in Sue e Féval. « Mélange d amour et d’effroi... », « la volupté funèbre », « l’amour fait alliance avec la tombe... », diceva Madame de Stael agli albori del romanticismo: altrettante insegne. Si definisce il carattere maledetto della bellezza e dell’amore. Byron e De Sade ispiratori dei moderni, l’uno aperto e visibile, l’altro clandestino, ma non troppo. « En lisant certains de nos romanciers en vogue — avvertiva il Sainte-Beuve —, si vous voulez le fond du coffre, l’escalier secret de l'alcòve, ne perdez jamais cette dernière clef ». La chiave l’ha ritrovata il Praz, e come se ne serve! Il suo capitolo intorno all’influenza del terribile marchese su tutta la letteratura dell’ottocento è un catalogo preciso e spietato dal quale non si salva nessuno, o pochissimi. La filosofìa sadica (tutto è male, tutto è opera di Satana, onde occorre praticare il vizio perchè conforme alle leggi di natura che impone di distruggere. Corollario: il delitto è l’asse dell’universo) permea la letteratura ottocentesca, non risparmia il cristiano Chateaubriand, affiora in pieno nella poesia e nel romanzo 1830, arriva a Swinburne, a Huysmans, a Barrès, a D’Annunzio, passando naturalmente per Dostoiewski e Nietzsche. Il padre è innominabile; ma quale progenitura! Pochi scrigni resistono alla chiave di cui sopra: ma è proprio sempre buon gioco? O il Praz non è tratto a estendere troppo la sfera d’influenza dell’autore di Justine e a reclutare troppa gente sotto le sue bandiere? Più che di gregari illustri, l’esercito si compone se mai di uomini mediocri, che son poi quelli sui quali specificatamente agisce la molla della moda. Quando Théophile Gautier denunciava « le roman-charogne », « la littérature de morgue ou de bagne » (le siècle était è la charogne, et le charnier lui plaiseait mieux que le boudoir), se gli avessero chiesto di far dei nomi avrebbe dovuto escludere Stendhal e Balzac, Hugo e Dumas, per accontentarsi dì Jules Janin, Petrus Borei, Frédéric Soulié, e altri minori cannibali. Quanto ai grandi nomi, Delacroix, Baudelaire, Flaubert, la chiave serve meno, gira con qualche fatica e gli scrigni hanno anche altre toppe: ma il Praz per arrivare al suo punto fa magari saltare il coperchio, sforza la serratura, perché dal tempo delle favole le chiavi magiche hanno cessato di funzionare. Fallacia d’uno schema? Il torto è di voler ridurre al minimo denominatoire comune elementi che pretendono a una loro autonomìa: le caratteristiche sadiche di Baudelaire non si spiegano da sé, non si esauriscono nella formola delittuosa, richiedono, se mai, l’aiuto di qualche altra chiave, una delle quali si chiama Poe. E poi bisognerebbe dimostrare che il regno degli orrori, i temi macabri e osceni, la crudeltà e il vizio cominciano col turpe marchese: su quanta letteratura, allora, occorre dar di frego? E che si fa del teatro elisabettiano e delle stesse tragedie di Shakespeare? Più sciolto, si diceva, il gioco al paragone dei raccoglitori di briciole della mensa sadica, Mendès c Jean Lorrain, Mirbeau e Ducasse: costui, altrimenti detto il conte di Lautremont, è un fornitore di ricette macabre, dal sinistro umorismo, morto a ventiquattr’anni, in modo misterioso, e oggi rivalutato dai surrealisti; sincero o mistificatore, è difficile dire. « Moi, je fais servir mon génie à peindre les délices de la cruauté... Le génie ne peut-il pas s’allier avec la cruauté dans les résolutions secrètes de la Providence? ». Sono bestemmie che non c’impressionano più, e ci vuol altro per farci gridare al « terrible ». La possibilità dell’evasione ironica e umoristica è a portata di mano; e basta un nulla a risolvere in una risata tutte queste "bellezze medusee, satanismi, vampirismi, necrofilie, musei degli orrori, crudeltà e lussurie. Il manierismo è tipico della tendenza di tutta un’epoca: quando della formola s’impadronirono i decadenti, il ciclo era chiuso. Prendete tanto di erotismo, tanto di perversione, tanto di mostruoso, tanto di lucida follia, agitate e servite: è un racconto di Sar Péladan o una novella di Rémy de Gourmont. Siamo a Bisanzio. Che direbbe il calvinista Gide, caposcuola d’un preteso classicismo e moralista a modo suo, nel vedersi ridotto a quel denominatore comune? In lui, paura di compromettersi da un lato, violento bisogno di compromettersi dall’altro. Nella prima si rispecchia l’ambiguità psichica, nel secondo quel piacere sadico di sentire l’orgoglio della propria umiliazione, di violare il pudore altrui scandalizzato... « Basterà appena ricordare che la posa prometeica, il gusto del satanismo, il ricanement intérieur che si ritrovano nel Gide sono caratteristiche sadiche ». E anche Gide è servito. Ma, pel suo caso, non sapremmo davvero commuoverci troppo. Radici nel decadentismo; ma Gide è un uomo dei nostri giorni. E se il Praz si fosse spinto ad esplorare il terreno letterario tedesco, quanta messe avrebbe raccolto e come la sua famosa chiave avrebbe funzionato a dovere. Ci sarebbe tutta un’appendice da scrivere sull’apporto dell’elemento semita alla causa del satanismo e dell’immoralismo: e tra gli ultimi nomi, quelli di Lion Feuchtwauger e di Alfred Neumann meritano d’essere scritti.

Lorenzo Gigli.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 08.07.31

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Citazione: Lorenzo Gigli, “Qui si parla del diavoli e della carne,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/42.