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Titolo: Sobborgo

Autore: Riccardo Marchi

Data: 1932-05-18

Identificatore: 1932_234

Testo: Sobborgo
— Tu qua finalmente di nuovo... Da tanti anni, non ti si vedeva. Sei un poco invecchiato... Capelli bianchi anch’io, vedi? Che conta questo?... Ma perché guardi attorno con quegli occhi spauriti? Sembra quasi che tu non voglia riconoscermi. Tu, nomade, non sai capacitarti che qui sei nato. Solo chi non ha mai lasciato il sobborgo non muta carattere ed umore. Ma si, forse hai ragione: tutto è diverso, idra. Queste case non c'erano quando partisti; la strada è stata slargata: i tigli dove si saliva per fare i nidi...
Sapevo che avevan demolito il trivio per costruire al suo posto immensi alveari, abitati da gente nuova, trasformato le cànove modeste e abbellito le case che non si potevano abbattere. Ma che avessero tolto i tigli maestosi che di questa stagione mandavano un acre profumo non supponevo neppure. Nemmeno le fosse, da dove han sradicato le radici vetuste che dirompevano qua e là come braccia nodose sul selciato, sono visibili: le hanno riempite di pattume e di ghiaia. E proprio oggi, al mio giungere, la stradai bianca a perdita d’occhio fin oltre la periferia lungo la quale si estinguevano gli ultimi aneliti di vita cittadina — proseguendo le case divenivan piccole e rade, di gente dagli istinti primordiali e refrattaria ai rumori, poi i muri che dividevan gli orti cedevano il posto ai fossati e alte siepi di biancospino, poi la marezzata dei campi, libera, a perdita d’occhio — oggi la strada del sobborgo, accecante durante i solleoni, divien tutta nera. I barrocciai scaricano ai lati una poltiglia bigia: uomini l'ammucchiano, la misurano, la distendono.
— Ehi! — dice l’amico ritrovato — non stare cosi a naso in aria se non vuoi che la macchina dei rulli compressori schiacci te pure.
Stavo compiendo un grande sforzo d’immaginazione per rivedere, dietro le case nuove, i campi come si potevano scorgere pochi anni or sono, la casa colonica soffocata quasi dal canneto, gli argini del torrente e, più avanti, la mattonaia. In autunno quando la terra si spogliava si scorgeva, al di qua dell’argine, la creta gialla travasata in cumuli di forme quadrate pronte per passare alla fornace. Di sera le stirpe arroventavano il forno e dalla ciminiera bassa in mezzo ai campo si levava uno sfavillio e si diffondeva un bagliore che dava al sobborgo un aspetto sinistro: Golfo Leone si chiamava un tempo, tanto nei vicoli al limitare della città si torceva il vento di mare e vi divampavano le risse degli abitanti, prepotentacci, si diceva, pieni di orgoglio rionale, divisi per famiglie orgogliose e incorrotte, capaci di far baruffa per un nonnulla e di scatenare l’iradiddio per un’inezia cui fosse connessa la parvenza di una questione d’onore. Miti divenivano invece, ospitali, premurosi per il merciaio ambulante, il ciarlatano, lo zingaro che vi si soffermasse prima di entrare in città. Volti scarni e rudi che mi sembrava di veder stagliare da un nuvolo denso di polvere come quando il vento la solleva tutta per render più scarno il pietrame sconnesso delle carreggiate.
Si, stavo osservando i muri dei casamenti nuovi alti contro il cielo, e mi sforzavo di ricostruirli piccoli, scrostati come al tempo in cui le grondaie vi lacrimavan sopra corrodendo l’intonaco e conferendo loro un colore ferrigno ed al sobborgo tutto un aspetto aspro, inconfondibile, di gente che non avrebbe mai messo orpello sulla crosta originaria, né lasciato mistificare la propria natura, quando d’improvviso rimango come attratto dal rullo compressore che mi viene incontro. Lentamente il cilindro enorme, arroventato dal fuoco che ha in corpo, avanza e le ghiaie pressate scompaiono come un ossame scabro e disutile. L’asfalto che vi è stato disteso sopra si scalda diffondendo un acre odore di strinato e di minerale combusto. Se l’amico non mi disincantasse tirandomi per la giubba, non cesserei di subire la suggestione di questo parapetto mobile che mi sembra enorme da offuscare il cielo e in cui ogni visione si annulla.
— Noi li abbiamo visti trucidare uno ad uno, i tigli, a colpi d’ascia e ci siamo abituati a non vederli più. Ma tu, briccone, te ne andasti perché l'aria che qui respiravi ti sembrava poca per i tuoi polmoni ed ora ti fa quasi male a vedere il sobborgo cosi arricchito e pensare che, fra pochi mesi, vi saranno tutti gli agi come nel centro della città.
La macchina è passata ed io scorgo i rulli che fanno da ruote posteriori e la ciminiera che impennacchia il cielo di nero. Qui si cammina già in un modo diverso, come su di un tappeto elastico, con una impressione di mollezza.
— E gli amici? — domando, Il tale, il tal altro...
Ora mi ricorda chi ha emigrato, chi è tornato in altra parte della città, chi non torna più: dice con un’aria cosi rassegnata a quei fatti ormai accettati e fuori dell’animo suo che mi par di udire, nella sua voce, lo sbuffare ritmico della schiacciasassi.
— E questa è la casa nuova del padrone della fornace. Falli poco dopo la tua partenza e fuggi in America. In pochi anni è tornato ricco sfondato, denari guadagnati chissà come. Ha pagato tutti al centesimo per dimostrare che non ha il pelo sul cuore, come fu detto. Da un anno non esce più di casa. Paralizzato, si dice. Troppo adipe, troppo sangue, troppa ricchezza. Ora scòstati ché torna la macchina in questa direzione.
— Al posto di questa villa tutta marmi lucenti — dico timidamente — c’era il prato dove, di questa stagione, si faceva la fiera.
Si trattava di uno spiazzo verde chiuso da siepi e da qualche casupola scorticata che dava al sobborgo un che di arioso e c’illudeva quasi d'esser gente di campagna. Vi piantavano le tende i saltimbanchi; vi venivano alzate le baracche del tiro a segno Flobert, dei fenomeni viventi, degli specchi concavi e convessi, del piccolo serraglio, le fabbriche di dolciumi e la giostra.
Quest’ultima giungeva ogni anno più vecchia, i cavalli di cartapesta tutti laceri, i carrozzini traballanti dalle vernici, gli ori corrosi e gli specchi inchiodati alle assi pieni di ferite nere che spesso rivelavano la pellicina rossa che portan dietro come per vergogna delle cose viste. L’organetto suonava la nenia di una vecchia opera udibile solo al principio del giro ché, quando il carosello prendeva velocità, veniva soffocata dai gridi dei ragazzi tutti lieti che cielo, campi, case, i volti della gente assiepata dietro la corda divenissero come i frammenti di un mosaico vario mescolati da un giocoliere bizzarro.
Nell’interno della giostra una brenna smunta girava girava come intorno ad un bindolo che non attingesse acqua ma gente come noi, brada, scapestrata che voleva illudersi d’esser sempre in tenera età. Gira gira, un giorno la brenna stravaccò per terra e noi prendemmo ili suo posto fino al termine della fiera e ci guadagnammo il diritto di correre gratis sulla giostra...
I saltimbanchi — petti quadri, baffi prepotenti tenuti su senza artificio, voci incomprensibili in tutto simili al guaito del cane selvatico, al ruggito del leoncino, al miagolio di tant’altre bestie intristite nelle gabbie nascoste dai tavolati — finivan col considerarci come componenti la loro famiglia.
— Questi — si diceva nel sobborgo son uomini forti, autorevoli, degni del massimo rispetto.
Stranieri favolosi, penso io, che, girando il mondo, non riesci a trovare la patria da dove provengono. Giungono non sai da dove; si fermano all’orlo di un campo e ne aspirano il profumo troppo languido per le loro narici forti e crean, dove piantan le tende, un altro odore acre, di strame, di cui son pregni i corpi e le livree che indossano durante gli spettacoli. Le donne invece son piene di mistero e non puoi cessare di considerarle come esseri soprannaturali anche se le vedi aggirarsi intorno alle baracche, distender panni semisporchi a una corda, stringere al seno un bambino.
Ora l’amico vorrà sapere tutta la mia odissea intorno al mondo e le ragioni del mio ritorno.
Tornato si — vorrei dirgli — come dopo un giro rapidissimo di quella vecchia giostra. Si monta e si riscende dopo poco stupiti che, nel frattempo, il giocoliere bizzarro abbia ricomposto il mondo in un modo tanto diverso... Ma non potrò spiegargli, perché mi riderebbe in faccia, che, girando a quel modo, non riuscii ad imbattermi mai, come avevo sperato, in una di quelle donne della carovana dai capelli biondi e gli occhi di acciaio di cui mi ero invaghito un tempo.
— Ed ora andiamocene — mi sospinge. — Dà noia anche a me questo puzzo di asfalto. La strada in meno di un’ora è divenuta tutta nera. Presto verrà riaperta al traffico. Le automobili la faranno divenire lucida e quando piove potremo specchiarvici dentro. Entriamo nelle vie laterali: qui poco è mutato: le stalle, le botteghe, le cànove, tutto come allora. Troveremo qualche vecchio amico. Non ti riconosceranno dapprima. Sai, la Nina, quella che non ti volle perché eri troppo timido, andò sposa ad un altro. E’ divenuta grossa come un otre: quattro figli e, pare, non tutti del marito. Ai nostri tempi non si sarebbe tollerata nel sobborgo una cosa simile... Ma che hai? Non fare quella faccia. Prendi un sigaro, qua: fuma e sii disinvolto. Che direbbero i vecchi amici nel rivederti cosi? Cos’hai imparato girando il mondo?... Perché hai voglia di piangere?... Che uomo!... Che uomo!
Riccardo Marchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 18.05.32

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Citazione: Riccardo Marchi, “Sobborgo,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/490.