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Titolo: Notti di case estive

Autore: Marcello Gallian

Data: 1932-08-10

Identificatore: 1932_360

Testo: Notti di case estive
Liberi, per metà nudi, Mario e Francesca, che son moglie e marito, se ne stanno gran parte del giorno al mare, distesi sulla sabbia. La sabbia li faceva camminare in modo diverso, insolito, un passo chiamava l’altro, pesante e tardo, i muscoli si irrobustivano.
Facevano l’altalena, il mare alle spalle, una vertigine, o giocavano con una camera d’aria di pallone che portava una toppa nera attaccata con la gomma cinese. A volte schizzavan via, or l’uno ora l’altra, dalla tavoletta dell’altalena, una capriola in aria, e ripiombavano sulla spiaggia, rimanevano immoti per ore ed ore, il sole li copriva, li lavorava a suo piacimento.
Quando il sole era alto, la carne calda e forte l’odore delle ascelle, quando la sabbia scottava, allora facevano assieme un bagno forte, vasto e terribile. Faticavan dentro l’acqua, sguazzavano, promovevano piccole tempeste: alti spruzzi, gorghi improvvisi, col fiato innalzavano trombe marine: era un andirivieni, un toccare il limite dell’orizzonte e un tornare a riva, di continuo, un fare il morto; gambe unite e braccia distese, si addormentavano così sull’onda. La paura li prendeva allora, si allontanavano insensibilmente l’uno dall’altra, ma non alzavano il capo, non aprivano gli occhi, in alto mare rimanevan gran tempo sino a che le navi scomparivano, i mosconi e gli uomini tornavano alla riva. Allora Mario e Francesca cercavano di ritrovarsi, senza urla, senza voci di soccorso: aprivano gli occhi, l’aria era vuota, bianca, immensa, non un filo d’erba, non un’alga, non un uccello, una incommensurabile acqua chiara: le mani si cercavano e riuscivano a toccarsi, a stringersi sì che eran soliti chiamarle le mani perdute.
Ritornavano a terra, un poco ebeti, come due naufraghi e fradici: si gettavano sulla rena rovente che dopo poco era fradicia anch’essa: si addormentavano pel gran caldo. Supini, se aprivano gli occhi nei sonni, Mario e Francesca vedevano quell’aria chiara grande, senza scrupoli, priva di nuvole, e provavano come un sentimento di perdizione.
Erano il pericolo della spiaggia: i bagnini e i vecchi salvatori di naufraghi se ne stavano in agguato sulla riva, in batticuore, con la segreta speranza di poter guadagnare denaro da un momento all’altro.
— Ma dove ve ne andate? — domandavano alcuni.
I due facevan gesti vaghi, sorridendo appena e l’indomani si rituffavano nell’acqua, scomparivano. Nessuno li vedeva più. Fioccavano i commenti, i pronostici, le assurde spiegazioni: il mistero ingigantiva ogni giorno più. La gente alla fine toglieva dalle valige di cuoio piatti di latta e bicchieri, allineava le stoviglie sulle tavole delle cabine, chiamava le famiglie a raccolta e mangiavano tutti. Nelle pause del mare, nella tregua dei suoni, s’udiva, tra un frangente e l’altro, una forchetta battere sul piatto, il lungo roco abbeverarsi dei ragazzi assetati, il malessere dei cibi ingoiati di fretta, sani sani.
In quella giungevano d’incanto Mario e Francesca, con quella spensierata severità inconsapevole che hanno coloro i quali tornano dall’acqua grave e fonda: lucidi, i capelli sugli occhi, Francesca un poco stinta nel viso, ma annerita nelle braccia e nelle gambe, con una femminilità che si faceva lontana ed acre, e i curiosi non provavano a guardarla che ricordi di remoti peccati. Dormivano distesi, nel silenzio, che diventava una necessità naturale e marina, vicini all’acqua oliata.
Sino a che un giorno, che come il solito erano entrati in mare e s’erano allontanati, la gente sospettosa non li vide tornare: e più che dolore, fu uno scandalo sfacciato, qualcosa di proibito, una oscenità.
* * *
Mario e Francesca erano tornati in città ancor caldi, la bocca salata, nelle calze la sabbia, gli orecchi chiusi e ogni poco nel naso quel particolare sapore d’acqua marina di chi è lì lì per affogare. Spaesati, avevan vagato nel pomeriggio, s’erano fermati inebetiti nell’angolo d’una grande piazza a sorbire un caffè lungo eterno nero e la gente che passava dinanzi ai loro occhi aveva strani aspetti: gente tutta terrestre, rigata dai vestiti, coi capelli unti o annodati o arricciati, le mani soffici e sudate, le scarpe ben legate ai piedi, divenuti feroci.
Avevan cenato, la sera, in un’osteriola quasi vuota, un poco di pane e carne con sapore di mattoni, di benzina e di strada: passo passo s’erano avviati verso un cinematografo all’aria aperta, nel quale fiorivano le rose e sulle sedie e sulle poltrone cadevano spalliere d’erba. Ognuno, fumando, aveva sul capo una stella.
Quando uscirono, a mezzanotte, Francesca disse:
— E ora dove andiamo?
S’incamminarono a casaccio, tristi, sul terreno duro e una pietra chiamava l’altra e si poteva sbattere contro qualche spigolo imperioso, contro un ostacolo insospettato. Sino a che si ritrovarono sul portone di casa. Allora li prese la paura.
Era una paura invincibile, misteriosa, che faceva salire gli scalini con sospetto, nell’aria debole dei pianerottoli duri; la porta di casa era bucata e tappata poi con un tappo di carta straccia. L’uscio al di sotto, quando l’aprirono, era colmo di biglietti, di cartoncini, di foglietti volanti e di polvere: ma nulla si muoveva, tutte le cose eran rimaste dove l’avevan posate. Avevan preso piede perfino i materassi avvoltolati nei sacchi e nelle tende; le sedie accatastate, le ceste colme di vestiti d’inverno e di naftalina aderivano a dismisura contro il pavimento e contro il muro che doveva essere in quel sito rigato. E un odore malsano fermentava, di tutto l’inverno passato, di tutti i movimenti eseguiti, delle bevande, dei cibi cotti, degli utensili manovrati.
Libero e fresco si manteneva, fra le camere, il cesso e veniva voglia di tirar l’acqua, per sentir rumore: ma nella bagnarola di latta la polvere ingialliva nel fondo ov’erano carta risecchita, grani di calcinaccio, capelli fuggiti per l’aria e poi caduti per sempre.
Francesca distese un materasso in terra, Mario sedette sopra una poltrona. Un cappello vecchio sbucava di sotto un mobile e Francesca lo poteva vedere, supina com’era, di traliccio: una scarpa sfondata aveva errato per la camera, s’era posata, alla fine, in un angolo: ma sul pavimento opaco di polvere erano tante mosche morte; alcune muovevano ancora le ali appena.
Mario e Francesca anch’essi indurivano, dapprima impacciati, poi sempre più legati, dentro quella scatola di cemento, si facevan solidi e avvertivano appunto, sbarrati gli occhi, quel tramutamento e quando cercavano di ribellarsi, trovavano i gesti ostili, lo sguardo che i muri rimandavano indietro, i pensieri freddi.
La tremenda abitudine della sedentarietà, dello star fermi e precisi su cose dure, insospettabili, lontane da pericoli, contrarie a ogni fluidità, allo scorrere Ondulato, a ogni desiderio di navigare, li prendeva alla gola, li fermava, li irrigidiva: un costume atavico — quella camicia da notte, quelle mutande grezze e opache, accalorate di già — faceva strati sulla loro pelle.
Si sentivano nati pel mare, razza marina e la breve villeggiatura, dopo tanta terra, aveva loro rinfrancato i ricordi: ma come vano quel perditempo nelle acque, come ridicolo, come assurdo, come ridotto ai minimi termini: la disperazione veniva loro simile a quella che devon provare i naviganti imperterriti condannati a dispensar barche, a salvare gente sopra un palmo di mare, a verniciar sandolini.
Pensarono che quella breve villeggiatura fosse stata tutta un errore e si sentirono chiusi nuovamente fra le mura, fra i sassi aridi, senza commerci, senza pericoli, fra gente, anche questa tumulata e che del tumulo sapeva i segreti.
Credettero di addormentarsi: venne l’alba, si mosse il portiere dal suo stambugio di pietra, afferrò la scopa pesante e il bidone di latta, si mossero nella strada asfaltata i carri. I fanali, spenti, durante la notte avevan messo radici.
E quando lo spazzino caparbio, al principiar dell’inverno, bussò alla porta di casa di Mario e Francesca, nessuno rispose.
Continuò a bussare, come un aguzzino, sicuro del fatto suo, sulla porta dura e secca.
Marcello Gallian.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 10.08.32

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Citazione: Marcello Gallian, “Notti di case estive,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/616.