Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Romanzi in gara

Autore: Lorenzo Gigli

Data: 1931-06-24

Identificatore: 64

Testo: Romanzi in gara

«Percorrendo il tratto Bologna-Milano o Bologna-Alessandria e viceversa, ciascuno avrà veduto ad un certo punto profilarsi all’orizzonte una città irta di campanili più che di ciminiere, chiusa fra una cerchia di mura a cui l'edera si arrampica e le chiome degli alberi si affacciano... »: si, l'abbiamo veduta questa città, e si chiama Piacenza: ed ha la piazza dei bronzei cavalli, e il municipale palazzo gotico, e una storia insigne che si sciacqua la bocca coi nomi dei Farnesi e di Maria Luisa; ed ha il Po fuori di porta che li abbandona la terra piemontese e lombarda per attraversare il verde piano d’Emilia che poi sempre più dichina verso il mare; e tutte codeste bellezze di storia e di natura, i ricordi del passato, le barche che si cullano nel gran fiume e dal cielo le guarda una luna tonda come un gong di rame, le ha cantate Valente Faustini, uno dei poeti dialettali più delicati e fantastici ch’io mi conosca. Oggi Piacenza ha il suo romanzo, questo che ci ha fornito il periodetto di cui sopra, da un paio di pagine di prefazione-programma che nell’armonia dell’opera contano qualche cosa. Si allarmerà la giovane autrice se le diremo che la prefazione, così sciolta e viva e cordiale, ci è piaciuta di più di certi altri passi d’impegno che s’incontrano nel corpo del racconto? L’autrice è Giana Anguissola, casato illustre nella storia piacentina, nome fino a ieri oscuro in quella delle lettere. Giana, una sola enne, venticinque anni, molto ingegno, una ricca sensibilità, aveva scritto finora qualche novella per i giornali illustrati, senza infamia e senza lode: ma aveva in serbo la sua sorpresa, di quelle di cui resta memoria. Il libro (diciamone finalmente il titolo, anch’esso non comune: Il romanzo di molta gente), presentato per il premio Mondadori di prosa, fu segnalato dai commissari come meritevole d’essere pubblicato: e infatti l’editore lo mette fuori insieme con l’altro che il premio ha vinto e che porta il nome d’un critico noto, Fernando Palazzi: e poi si dica male dei concorsi e delle gare letterarie! L’agone milanese ha dato là palma in una volta a due opere che se la meritavano, a disdoro di quanti pessimisti si ostinano a negare la vitalità e originalità della tradizione narrativa italiana.

Giana Anguissola si fa largo così, sulle soglie della giovinezza, con un libro, che più d’uno scrittore maturo le può invidiare sia come chiarezza e organicità di costruzione, sia come disciplina e sobrietà di mezzi espressivi. Siamo tra la gente di Piacenza: «La Madonna di Guastafredda è la loro fede, il Po il loro mare, la lavorazione dei bottoni il loro reddito. Appunto poco distante da una fabbrica di bottoni, in una via breve ed abbastanza tranquilla, sorgeva una casa in cui... ». La casa degli uomini, direbbe un tardo naturalista. Il racconto assume subito un andamento di cronaca minuta, un carattere d’interno sezionato come in certe stampe didascaliche. Questi inquilini di case popolari nelle città di provincia (ma poi non accade anche nelle grandi città, e Mario Sobrero non è penetrato anni fa con sentimento di poeta in un falansterio torinese, piccolo mondo di passioni, di dolori e di contrasti ritagliati su quelli del mondo più grande? ), questi inquilini si conoscon tutti, fanno vita quasi comune, sanno i modesti interessi gli uni degli altri e in fondo praticano una solidarietà umana che supera i dissidi alla giornata provocati quasi sempre da motivi esterni, chiacchiere e pettegolezzi e piccole invidie e grosse gelosie. Il romanzo, preso l’avvio, si snoda in tanti rivi che concorrono tutti alla corrente centrale e tutti vi portano qualche cosa, al fine comune, un carattere o un’avventura, una moralità o lo schema d’un dramma. La casa di molta gente, necessariamente un racconto corale: Giana Anguissola ha fatto dell’unanimismo senza praticare coi testi, ha scovato la folla dalle sue tane senza conoscere i trucchi dei cineasti, ha intuito la potenza della collettività senza toccare i passaggi obbligati della letteratura, Mort de quelqu'un o Les Copains. Lasciamo i modelli al loro posto negli scaffali: che potrebbe colare in forme tanto raffinate ed esigenti una fantasia cosi poco scaltrita, cosi vicina ancora, per sua fortuna, alla natura? Non ricordandosi di proposito di nessuno, e ricordandosi senza volerlo di molti, Giana Anguissola ha scritto un libro suo, sciolto, originale, aspro e fraterno, sanguigno e duttile, specchio dell’anima e dell’ingenuità popolare; è, in fondo, un libro ottimista, direi una sintesi di ottimismo, un affresco campito su una grande parete, con tante figure di primo piano che vengono avanti tutte insieme e che con la spontaneità e vivacità del gesto e dell’espressione son tanto brave d’incatenarti che non badi più ai particolari, trascuri lo sfondo e dimentichi di controllare l’autenticità psicologica e morale delle notazioni. Hai talvolta l'impressione che qualche tinta neutra stoni e che i giochi di chiaroscuro siano un po’ primitivi, ma la freschezza e la luminosità dell’insieme non ti danno tempo di badare ai suggerimenti interessati, e ti accontenti di quel che vedi, ch’è già un bel vedere. Stile e lingua, del resto, abbastanza vigilati; e a lagnarsi della presenza di qualche immagine vieta e comune e dell’uso a ripetizione di certe parole per cui l’autrice ha un debole (noto, per esempio, una strana preferenza per il participio accovacciato) ci sarebbe davvero da passar per incontentabili. Invece chi si contenta e gode d’un libro come questo fa il dover suo di lettore intelligente: razza che non s’è perduta affatto, e che accorre sempre quando l’esca è buona.

L’esca che gli presenta Fernando Palazzi, l’altro concorrente al premio, il vincitore, è ottima. Qui non si tratta d’una prima prova, e non si tratta di riconoscere posizioni di autonomia nei confronti della cultura e atteggiamenti di stupore dinanzi al mondo che si rivela. Palazzi è un critico, un letterato, un erudito; ma in senso umanistico. E’ anche un artista, e dell’artista ha il privilegio di rinascere e di rinnovarsi ogni volta che gli occorre, di ritrovare lo stato di grazia e l’innocenza che apre tutte le porte quando amor gli detta dentro, cioè l’amore della poesia. A ritrovarli lo ha aiutato, stavolta, il soggetto. Palazzi non è più giovanissimo, e questo è, credo, il suo primo romanzo: ma è come se venisse dopo una lunga serie, è la conclusione d’una professione di fede nella vita e nell’arte: che è quanto dire un corollario logico della attività critica palazziana tanto nobilmente esercitata. A raccontare cosi, Palazzi ha imparato sui classici del romanzo, fedele a Balzac della Commedia umana più che a quello dei Contes drólatiques; di suo, ha messo la modernità del gusto, la raffinatezza della sensibilità, la squisitezza delle psicologie e la finezza dei particolari. Il titolo (La storia amorosa di Rosetta e del cavalier di Nérac - ed. Mondadori, 1931) vi apprende che la vicenda principale si svolge nel secolo della Histoire du chevalier des Grieux et de Manon Lescaut; diciamo principale poiché il Palazzi ha inserito l’avventura settecentesca in un’altra, nostra contemporanea; egli rappresenta un’azione secolo decimottavo davanti ad una platea novecentesca, stilizzando quell’azione al modo di certi régisseurs famosi quando devono inscenare un dramma romantico, mettiamo Pitoèff per La dame aux camélias o Stanislavski per L'uragano. Palazzi non ha scritto centododici volumi come l’abate Prévost e non è stato, come lui, benedettino (ma la tonaca non gl’impedì di correr dietro alle gonnelle, salvo infine a riconciliarsi con la virtù); ha scritto pochi libri e ha meditato assai di più, vicino se mai al Petrarca della Vita solitaria: eppure codeste avventure del cavaliere di Nérac e di Rosetta sono formicolanti di esperienza e di verità assai più di quanto lo sia la patetica storia di Manon; e badiamo che sin dal 1731, anno della prima edizione in. una stesura imperfetta, c’era già chi si preoccupava della verosimiglianza dei casi narrati, e pretendeva di controllarne l’esattezza. Il lettore moderno abbandona la pretesa dei fatti rigorosamente verificati alla sorte extra-artistica che si merita, e sta pago alla illusione del vissuto. « Poi che la storia era finita, io tacqui ». Ci basta. Palazzi tace precisamente a pagina 415, trenta righe prima che il romanzo finisca. Le trenta righe gli servono a condensarne la chiara moralità. Marcella, la donna novecento, ha ascoltato zitta zitta le vicende di Renato e di Rosetta, ha assistito alla fine dell’eroe e a quella dell’eroina: lui sparito in un nimbo di gloria, lei spenta in un convento di monache, per consunzione d’amore. Marcella non si può consolare del tragico scioglimento, ché, per le donne, una storia d’amore dovrebbe finir sempre con uno sposalizio; e questo non sapersi consolare è indice della ritrovata pace e saggezza, del rinsavimento della vittima d’un’età che mette in trono tutti gli egoismi e tutti i meccanismi e abbassa lo spirito. « Per confortarla un po’, per darle almeno qualche soddisfazione, mi misi ad accarezzarle i capelli con tal tenerezza, da farle intendere che se una storia d’amore era finita, un’altra appunto allora ne cominciava. E poi che Marcella non ha vincoli di precedenti matrimoni, e i gesuiti non s’impacciano più nelle faccende private degli innamorati, tutto fa prevedere che codesta seconda storia avrà un giorno o l’altro un epilogo più felice dinanzi al curato ». Marcella è guarita; e tanti auguri agli sposi. Racconto dentro il racconto; qualche anno fa il gioco era piaciuto anche a Marino Moretti che nell’Isola dell'Amore ricreò una cornice settecentesca per una vicenda moderna, ma con intenti sottilmente ironici e rappresentazioni realistiche di un mondo umile e stanco, secondo la formola che gli è cara, e risolvendo quindi l’ironia sul piano della pietà. Il tono e le direzioni di Palazzi sono altri, il respiro è diverso, il cammino più vario. Uomo il suo eroe, non mito; l’ombra ch’egli proietta giunge sino a noi, si staglia su sfondi ricchi di sostanza attuale; a un certo punto la finzione si concreta, e il cavaliere di Nérac ritorna alla ribalta della vita incarnandosi in colui che racconta, nel nuovo paladino delle virtù e del senno dell'Angelica novecentesca; è una finzione consapevole, non un’allucinazione come quella della Marina fogazzariana; una finzione piena di significato. Del resto, tutto il romanzo si raccomanda per i suoi doni positivi che riducono al minimo i pericoli della discontinuità in un tessuto cosi complesso e delicato, e colmano gli spazi vuoti tra la favola e la realtà. L’interesse del racconto non cede mai; la resistenza dell’artista non s’affievolisce. Codesto è terreno da ottimi frutti; ma attenti a chi lo lavora.

Lorenzo Gigli.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 24.06.31

Etichette:

Citazione: Lorenzo Gigli, “Romanzi in gara,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/64.