Un uomo (dettagli)
Titolo: Un uomo
Autore: Fabio Tombari
Data: 1932-08-31
Identificatore: 1932_388
Testo:
Un uomo
Era una di quelle notti in cui l’orizzonte minaccia un’offensiva su tutta la linea. Un mare lungo, ad altalena, cullava i gabbiani al largo; un cielo senza stelle, senza vento. Lungo il litorale la campagna dormiva il sonno innocente di quel generale che approfitta d’una notte in cui il fronte è tranquillo per coricarsi senza le scarpe. Ma l’usignuolo non cantava, le rane vegliavano nei fossi con l’acqua in bocca. L’imboscata perciò era evidente.
Non per nulla i marinai erano lisciti sulla darsena. C’era nell’aria un presentimento, quasi una paura; e di là dell’orizzonte certi rumori strani, indistinti, come di carri in arrivo, di casseruole, di pignatte, che facevano pensare a. una carovana di zingari venuti sul mercato a disporre la mercanzia per la fiera del giorno dopo: erano le bombarde, le bombole dei gas, gli avantreni d’artiglieria, tutta la merceria a buon mercato che il nemico dispone per l’offensiva imminente.
L’orizzonte marino aveva quei suoni preliminari d’una battaglia. Fra poco l’uragano avrebbe sferrato l’attacco su tutto il fronte.
Venne un colpo di mare, si frantumò sugli scogli, biancheggiò in alto per un istante sotto l’occhio del faro: poi s’udì smaniare le barche che dormivano alla catena.
— E’ girato il vento da greco — disse un di Chioggia. E già tutti i galli, sui campanili della città addormentata, s’eran voltati dall’altra parte. S’udì sbattere una persiana su una delle tante case del porto, poi due o tre cani di bordo si misero a latrare a non so quale ladro di passo nella notte.
Allora arrivò Serafino. Grande e potente, alla luce intermittente del faro, lo vedemmo arrivare dalla spiaggia con tanto di canna e d’ombrello come un predicatore di montagna.
— Padron Serafino, dove andate?
— gli chiesero.
— Mi metto qui — rispose sedendosi su uno dei blocchi della scogliera, — mi metto qui a pescar l’anguilla con la matassa. E voi perché non andate in mare?
— Il tempo è matto — fece il nostromo.
Serafino s’alzò in tutta la persona: fissò il mare, annusò nell’aria un odorino di pioggia al largo. Laggiù all’orizzonte tutto brontolante di tuoni sommersi era come se un gigante accendesse la pipa.
— Non è niente — fece Serafino
— sono dei lampi di calore. Fra una mezz’ora avremo una passata d’acqua, poi il levante.
- E fu così. Venne uno scroscio di pioggia, come un fritto di pesce: un po’ di bollore sopra l’acqua, un sentore d’alghe e di fradicio, e già il vento soffiava da est.
Non era successo niente. All’infuori di un nuovo voltafaccia di tutti i galli benpensanti sui campanili della città, non era successo niente.
Già l’aurora tingeva l’oriente coi colori d’oltremare: azzurro oro e carminio, alla maniera bizantina; e tutte le barche a una a una, sospinte dalla freschezza del levante, bordeggiavano al largo, simili a una compagnia di frati rossi che vadano a mattutino verso un altare.
***
Fu quella notte che conobbi Serafino. Uno strano tipo. Incredulo in fatto di meteorologia, sapeva predire il tempo buono dal suo odore, o l’uragano dopo un passaggio d’ottarde, di chiurli o d’arzavole; ma in verità era un ignorante.
Al suo confronto, Marco Polo che non sapeva di latino, e Pitagora che aveva meditato sugli astri senza conoscere la legge di Newton, erano dei professori. Egli, infatti, sapeva appena leggere e scrivere. In compenso però parlava il cafro, l’umciopi, il papuano, il maciangani, il basuto.
— Se tu incontrassi uno schelem
— mi disse — non sapresti cosa fare, perché non sai cosa sia, mentre dovresti nasconderti, appollaiarti su un albero, difenderti, fuggire, perché lo schelem è il leone.
Un giorno, dopo la ritirata di Ladysmith, il presidente Kruger l’aveva interrogato:
— Chi siete?
— Yena umlungo (sono un uomo bianco).
— Con chi siete?
— Yena mina (sono con me).
Il presidente, che non aveva tempo da perdere, lo lasciò andare. Dopo idi che Serafino aveva girato il mondo.
Non conosceva la geografia, ma aveva attraversato tutto il Bechuana Land a piedi, navigato per sette mari, lavorato negli alberi della gomma sul fiume Negro, rapito una monaca a Para e militato come luogotenente in un esercito in cui tutti i soldati sono colonnelli.
Sullo stretto di Bering, dopo la punta St. Michael, una fila di scogli ciechi nei mesi di sgelo emerge dall’acqua: sono i Seraphin Rocks che nessuno conosce perché restano emersi soltanto pochi giorni dell’anno. Ma che importa? La scogliera c’è, come è vero che a 40 miglia di là, sullo Yukon, una tribù di mongoli, prigionieri della notte, attendono ogni anno la levata del sole, simili a quei detenuti che aspettano la nascita d’un principe per ottenere un’amnistia.
— Sarei curioso di sapere — mi disse un giorno — se i comunisti, che hanno tanto buon cuore per i miserabili, sarebbero disposti a spartire le loro pietanze con questi popoli che nelle notti polari urlano nel vento dalla fame e ingoiano gli ossi dopo averli triturati col martello; o con gli ottentotti che nei mesi di carestia mangiano le pelli di daino che avevano conciato per vendere.
Quel giorno stesso Serafino volle condurmi a casa sua, lì sulla proda del mare, perché visitassi il pollaio, la cantina, gli ortaggi. La moglie grassa, rossa e pacifica, sotto il fico brogiotto, mi salutò con un inchino.
— Di dov’è la sua signora? — chiesi a Serafino.
— Di Tzitzikammo... Vedi, davanti all’orto ho fatto alzare questo muro di tre metri, se no la bora mi distrugge tutto. Ma tu hai mai mangiato la mostarda di mele come la fa mia móglie?
Dentro casa, in ogni stanza, c’era il ritratto d’un giovane, coi fiori: erano gli altarini per il figlio palombaro, morto affogato tre anni prima, là dirimpetto, sotto la scogliera, mentre faceva il bagno. Inutilmente il padre e la madre avevano tentato di ripescarlo con la rete da strascico: il figlio era rimasto laggiù nel cimitero di famiglia in fondo alla massa marina, come il nonno, come il bisnonno.
Io sapevo tutto ciò, ma evitavo di parlarne a Serafino. Preferivo sentirlo ragionare del suo passato. Quel riandare il passato era il suo piccolo cabotaggio, e a me piaceva vederlo navigare all’indietro nel tempo, per quel mare di molta gente.
* * *
Aveva fatto tutti i mestieri Serafino; anche il cacciatore d’oro, anche il canzonettista. Cosa c’era di strano? Quando uno ha fame, arriva a far tutto, anche a cantare. Voce non ne aveva, ma erano otto mesi che non poteva lavorare per una polmonite, lassù nell’Alaska; allora si presentò a un ebreo e questi lo scritturò per tre settimane, gli procurò la marsina che serviva al boia del distretto nelle grandi occasioni, e Serafino sali sul primo palcoscenico di Klondike. Cantava da tenore, da primadonna e da baritono.
— Tutta la mia vita è così — mi diceva—; nella mia vita non c’è un fatto chiuso, ma tanti fatti uno attaccato all’altro còme i giorni del mese, come gli anelli d’una catena. Gli uomini sono cosi: non hanno un romanzo, ma quattro, sette, venti romanzi, senza capo né coda, come i mesi dell’anno, come le onde del mare. Se tu volessi fare un racconto della mia vita non ci riusciresti, è vero Nina? — diceva alla moglie. — E poi, vedi, tu credi che tutto ciò che ti ho raccontato sia quel che più mi sta a cuore. Ti sbagli. Quel che più mi cuoce lo tengo dentro di me, non lo dico a nessuno, nemmeno a mia moglie, nemmeno a me stesso. Dicono che il mondo con le invenzioni d’oggi è piccolo. Per me il mondo è grande, non finisce mai, come la grandezza e la miseria degli uomini. Ma tant’è. Tu non mi capisci. Nina, andiamo a cena, ché tanto questo qui non mi capisce.
Io lo lasciavo sfogare.
— Buona sera, Serafino.
— Sacabona — rispondeva.
Veniva la notte, la calda notte d’estate, piena di voluttà e di languori. In nessuna parte arde il firmamento come sul mio paese.
Serafino accendeva la pipa, si sedeva sul terrazzo, ascoltava il sonno gonfio del mare, come uno che siede davanti alla culla del proprio bambino. La moglie presso di lui agucchiava un maglione per l’autunno, un maglione di un metro di altezza per un metro di giro, come il golf di Farinata degli Uberti.
A tratti, dalla vicina sala da ballo, giungeva loro la marcia funebre d’un tango argentino: il canto dei bovari che emigrano con tutto il bestiame per ritornare traditi alle proprie donne sul cominciar dell’inverno. Era un’umanità dolorante che cantava a un uomo al di qua d’un oceano.
« Ma quelli ballano — diceva Serafino. — Beati loro: quelli non sanno.
« Ciò che più è grande — diceva ancora — non è l’infinito degli astri, ma l'infinito delle possibilità. Se gli astri sono innumerevoli, anche le loro combinazioni non finiscono mai ».
E parlava di stelle che vanno per tre come i terni, per quattro come le quaterne; di astri con gli occhiali, di mondi con la pipa.
— O è cosi o l’infinito non esiste — diceva anche. E questo era il suo grande cabotaggio.
Certe volte, di notte, quando tutti dormivano, si spingeva sulla scogliera col fare sospetto di un amante che va all’appuntamento d’una sirena.
A intervalli il mare in bonaccia gli riversava sotto i piedi tre onde uguali. Poi una pausa. Era la condotta. Il mare obbediva a un proprio ordine come i venti, come gli astri, come gli ortaggi.
D’un tratto una quarta onda improvvisa, una di quelle onde non previste dalle leggi della condotta, con uno schiaffo sullo scoglio, balzava su in frantumi a lavargli la faccia, a inzuppargli i vestiti, e Serafino, felice come un padre che si sente bagnare in petto dalla propria creatura, s’alzava, si asciugava col fazzoletto e rideva al mare. Oppure tornava a sedersi più in qua, su uno scoglio più alto.
E meditava sulla morte.
Fabio Tombari.
Collezione: Diorama 31.08.32
Etichette: Fabio Tombari
Citazione: Fabio Tombari, “Un uomo,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/644.